Le ultime polemiche sul web sulla pizza di Cracco sono la metafora di un paese che non riesce a liberarsi dallo scontro fra la tradizione e la cucina d’autore
Una delle caratteristiche del web sono le polemiche cicliche. Per esempio gli scontrini cari al bar. Per esempio la pizza di Cracco che costa 22 euro in Galleria. Il tema è tornato prepotente costringendo tutti i grandi network ad occuparsene perché un famoso pizzaiolo napoletano, Enrico Porzio, è andato a fare personalmente la recensione descrivendola come «buona e con ottimi ingredienti». Ma quello che ha scatenato la rissa, portando il video a due milioni di visualizzazioni, è l’ultima frase: «Il prezzo? 22 euro, ma ci sta».
Nel gioco delle parti, impossibile mettere un punto perché la discussione sul web è come un’anguilla nella vasca, difficile tenerla ferma a dei riferimenti acquisiti e certificati. Allora c’è stata una parte della critica gastrofighetta che ha subito detto che una pizza può anche costare tanto perché non è più un cibo povero. Poi la valanga dei puristi che hanno sostenuto l’inconciliabilità dell’idea di pizza con il prodotto di Cracco in Galleria che al massimo può essere definito una focaccia.
Dobbiamo dire che il prezzo alimenta le polemiche e le polemiche sostengono il prezzo. Chiunque attacca un personaggio famoso si guadagna un pezzo di celebrità o di follower, e al personaggio famoso le polemiche fanno solo tanto bene. In nessun luogo più dei social vale la regola del”purché se ne parli” a prescindere dai contenuti.
Del resto non è certo la prima volta che Cracco tocca il nervo scoperto della tradizione italiana. La regola “dell’impollinazione” dei follower vale anche per lui come per tutti. Nel 2015 l’intero Consiglio Comunale di Amatrice approvò un ordine del giorno per difendere la purezza della ricetta tradizionale dalla dichiarazione del cuoco di Masterchef di usare l’aglio nella preparazione dell’Amatriciana o la cipolla nella gricia. Sul cibo l’Italia dei campanili non ama scherzare, Nord e Sud uniti nella tradizione, dai bolognesi che insorgono per difendere i tortellini ai napoletani contro la pizza di Cracco.
La vera riflessione da fare è però come mai la cucina d’autore abbia ancora oggi bisogno della tradizione per imporsi all’attenzione popolare e come mai siano così pochi i piatti inventati da uno chef che sono diventati diffusi, famosi e copiati. Nel merito, la pizza di Cracco è buona e costosa, ma sicuramente non è un modello a cui i pizzaioli desiderano ispirarsi perché nel sentire comune la pizza è un alimento easy, buono per tutte tasche, facilmente leggibile, da piegare perchè morbido e scioglievole.
E la forza mediatica di Cracco non è sufficiente per capovolgere questo comune sentire. Come non era sufficiente a mettere l’aglio nell’amatriciana e la cipolla nella gricia.
La dicotomia tra cucina d’autore e cucina tradizionale è destinata a rimanere tale ancora per molti anni, la vediamo riproporsi generazione dopo generazione, social dopo social. Forse la risposta vera è che anche la gastronomia riflette bene la mentalità italiana che è la somma, non la sintesi, delle diversità regionali, in cui non c’è un modello capace di imporsi ovunque nonostante la potenza omologante dei media tradizionali e del web.
In sostanza: può una pizza costare tanto? Certo, se c’è chi la compra.
Ma sul piano del senso comune resterà l’assunto che una pizza per essere definita tale non può essere cara.
Diventa così sempre più difficile leggere la realtà se non si adottano altri parametri che non siano quelli tradizione-innovazione.
Per esempio, assumere quelli di Andy Luotto in Quelli della Notte di Albore: buono, no buono.
Ma è una soluzione troppo complessa, tanto per i gastroguru (pochi) dell’avanguardia, quanto per i gastropopulisti (tanti) della tradizione.
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