Questa bella foto è di Lidia Merola
Pubblichiamo volentieri questo articolo scritto da Monica per la rivista Slow Food. Riguarda l’unica pizzeria segnata dalla Michelin con il simbolo della forchetta.
Io artigiano libero
Arriviamo in pizzeria animati dallo spirito goliardico e “scalcagnato” raccontato da Emmanuele Rocco nel brano Il pizzajuolo del 1847, e andiamo via con l’idea che far la pizza non è un gioco. Guai se si sbaglia a distribuire la farcitura sul disco di pasta, se l’olio extravergine non è “un mezzo giro”, se si tagliano la pizza o i pomodorini del piennolo in malo modo. Guai a “stressare”, “traumatizzando” la materia prima, o mettere in disordine la pizza alla vista.
Dopo un accurato briefing, ho perfino il piacere di infornare un saltimbocca, mentre la fronte di Enzo si imperla di sudore per la tensione. Il forno è a temperatura, vedo ardere la brace sulla mia sinistra. Avverto il peso della pala di legno. «Devi mantenerla con due mani, poste alla giusta distanza» mi spiega Enzo. Il movimento di rilascio “del pezzo”, aiutato a scorrere da un velo di farina, dovrà essere rapido e deciso. «Non troppo vicino, non troppo lontano dalla brace» si raccomanda. Sento di essere un pilota in missione.
Il cratere di tutti i sapori più buoni del mondo: la vera pizza napoletana con aglio dolcissimo, filetto di pomodoro, olio d’oliva, origano e basilico. Foto di Andrea Scala
«Ci facciamo una pizza?». A Napoli si usa dire così, un intercalare che rivela il rapporto quasi carnale della città con questo alimento. Lanciata la proposta, cominciano le consultazioni frenetiche. Ci sarà «chi a vo’ cotta e chi a vo’ cruda», espressione che sta per «ognuno dirà la propria ergendosi a esperto». La pizza, invece, (guai il contrario), sarà cotta a puntino.
Si va da Enzo
Ma oggi, su Facebook, dove con alcuni colleghi dell’Università abbiamo fondato un gruppo, la discussione è morta sul nascere: «Si va da Enzo», il “pizzaiuolo”, come lui stesso ama definirsi. L’appuntamento è in via Caravaggio, la strada che collega gli infernali “campi ardenti” alla collina di Posillipo e al quartiere Vomero, selva di traffico e vetrine scintillanti. Qui, dal 25 giugno del 1994, c’è La notizia, il locale di Enzo Coccia. Pizzaiuolo, sì, ma anche ambasciatore di quel modo di fare la pizza, e la ristorazione, in Italia e all’estero.
Ci apre a pranzo, un’eccezione. La pizza la faremo insieme e quindi Enzo ci convoca sul presto. Ci occorrono tanto caffè e una robusta colazione per impastare a mano gli ingredienti per 20 persone. Coccia dà le direttive sbracciando nella direzione degli assistenti volontari del gruppo, inconsapevoli profanatori di un rito quotidiano che di solito si consuma all’alba.
Arriviamo in pizzeria animati dallo spirito goliardico e “scalcagnato” raccontato da Emmanuele Rocco nel brano Il pizzajuolo del 1847, e andiamo via con l’idea che fare la pizza non è un gioco. Guai se si sbaglia a distribuire la farcitura sul disco di pasta, se l’olio extravergine non è “un mezzo giro”, se si tagliano la pizza o i pomodorini del piennolo in malo modo. Guai a “stressare”, “traumatizzando” la materia prima, o mettere in disordine la pizza alla vista.
Dopo un accurato briefing, ho perfino il piacere di infornare un saltimbocca, mentre la fronte di Enzo si imperla di sudore per la tensione. Il forno è a temperatura, vedo ardere la brace sulla mia sinistra. Avverto il peso della pala di legno. «Devi mantenerla con due mani, poste alla giusta distanza» mi spiega Enzo. Il movimento di rilascio “del pezzo”, aiutato a scorrere da un velo di farina, dovrà essere rapido e deciso. «Non troppo vicino, non troppo lontano dalla brace» si raccomanda. Sento di essere un pilota in missione.
«Fortuna che la mozzarella e il fiordilatte sono già tagliati» penso. Sì, perché è questa una delle operazioni alla quale Coccia dedica particolare attenzione. Ai suoi allievi del corso da pizzaiuolo, che arrivano da tutto il mondo per trascorrere un mese dietro al suo bancone, credo che questa lezione resti impressa per tutta la vita: il taglio dei latticini. Da farsi rigorosamente a mano e, magari, come si faceva una volta, con la stecca, pochi secondi prima che la pizza vada in forno. Ma anche: in un determinato verso e con una determinata pressione e direzione. Se non si seguono quelle accortezze, insegna Coccia, i latticini non filano abbastanza né in modo uniforme e, inoltre, rilasciano troppo liquido, allagando la pizza. Insomma: un disastro.
«Eccezionali» racconta «si rivelano in questa operazione, i giapponesi. Con loro non si può parlare di pomodoro in modo generico. “Quale? Chi? Dove? Quando? Perché?” Vogliono sapere anche l’altezza della pedana sulla quale hanno i piedi mentre lavorano».
Enzo con una band niente male: Marianna Vitale, Alessio Rotondo, Gennaro Esposito, Lino Scarallo e Salvio Casale
Pizze d’autore
Mi piace pensare che Coccia abbia teorizzato e pratichi una sorta di geometria della pizza e dei suoi ingredienti, con scrupolo e sorprendente esercizio della più sana pignoleria. «Sarà, poi, questa la “notizia” che il locale annuncia?» mi chiedo. Non c’è verso: sebbene Enzo mi abbia più volte raccontato come nasce il nome della sua pizzeria, nei miei ragionamenti, approdo sempre alla stessa conclusione: «La notizia è che questa pizza, è la pizza di Enzo Coccia». Non c’è altro titolo per me. Il catenaccio, poi, è che Enzo è solo. E lo ripete mestamente.
Dopo avere contribuito alla creazione dell’Associazione pizzaioli napoletani, solido sperone nella battaglia per il riconoscimento ufficiale del prodotto, nel 2001, Enzo l’ha abbandonata. Tra le divergenze più inconciliabili, racconta, la scelta dei supporti per servire la pizza durante una manifestazione. «Quelli di plastica, no» sosteneva Coccia. Oltre che brutti e freddi, scottano le mani ai camerieri che devono servire le pizze. Un episodio, forse secondario, che, però, la dice lunga, non solo sul fatto che Coccia è una testa dura, ma anche che certe cose le conosce da dentro.
Proveniente da una famiglia di pizzaioli ristoratori della Duchesca, una zona a ridosso della stazione centrale di Napoli, Enzo mi racconta dei suoi studi, del servizio militare e, infine, del suo ritornare, nonostante le pressioni della famiglia affinché continuasse a studiare, sempre, a bazzicare in pizzeria. Durante gli scioperi del periodo caldo del rapimento Moro, imparava “a dar la voce”, “a far pover’” (alzare un polverone per attirare i clienti) al bancone in strada, dove ancor oggi si vendono le pizze a fazzoletto, le montanare, a robba ammiscata (verdura fritta, paste cresciute, panzarotti e arancini). Poi, il sogno di fare la pizza per conto suo, nel minuscolo locale dove tuttora lavora con i suoi collaboratori.
Pochi i clienti agli esordi della Notizia, «più giri di carte che di pizze». Piano piano, il progetto decolla e, con esso, anche Enzo: New York, Merano, Verona, Betlemme e così via. Ovunque, insomma, ci sia da lasciare a bocca aperta il pubblico dei colti appassionati di cucina con la semplice e povera arte della pizza napoletana. Oggi, mentre Coccia sta per trasferire il suo locale qualche saracinesca più giù, in quella Via Caravaggio che ha creduto in lui, la sua è una pizza d’autore. Non perché, per forza, sia la migliore, ma perché, al pari di quanto avviene nell’arte o nell’alta cucina, c’è la sua firma sotto. A far la differenza l’interpretazione personale del suo mestiere, la proiezione verso un ideale. Da Coccia la pasta si fa, davvero, ogni mattina di buon’ora. Lievita piano, per 12-14 ore, affinché sia pronta per la sera. A pranzo niente pizze. A cena, poi, tante pizze quante “ne escono” dai panetti programmati al mattino. Finiti i panetti, si chiude. I clienti ritardatari vanno a casa, e i loro soldi con loro. Torneranno? Lui crede di sì, in fondo.
Scelte solitarie, personali e vere che, finora, gli hanno dato ragione. Nel salutarci, in quella lezione dello scorso autunno, Enzo Coccia ci aveva lasciato qualche appunto. Tra gli altri, credo, il suo messaggio da artigiano della pizza, uno stralcio di La chiave a stella di Primo Levi: « Il termine libertà ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro e quindi provare piacere a svolgerlo». E’ questa la Campania che va.
Questa foto è di Monica
* Pubblicato su Slow Food 43, dicembre 2009
Slow Food Editore/asSaggi
Qui la mia prima scheda
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