di Pasquale Carlo
Viaggio nel regno della “regina delle mele”: il quadrilatero tra Valle di Maddaloni, Dugenta, Melizzano e Sant’Agata dei Goti
Nelle carte mentali dei “viaggiatori del territorio” le maestose arcate dei Ponti della Valle rappresentano le linea di confine ideale tra le province di Caserta e Benevento. Da una parte il paesaggio della Terra di Lavoro, prosperosa campagna che negli ultimi decenni si vede costretta alla ritirata a causa dell’invasione sempre più ingombrante di cemento e caos; dall’altro la verdeggiante terra sannita, con il suo susseguirsi di sonnacchiosi piccoli centri abitati, che diventa sempre più rado man mano che ci si sposta verso i confini con le terre molisane e pugliesi.
Chi si mette in moto dalla grande area metropolitana partenopea dirigendosi verso il Sannio, appena superata l’architettonica barriera progettata dal Vanvitelli, testimone dell’ultimo scontro tra i garibaldini e le truppe borboniche, si imbatte in un lungo, colorito e simpatico carosello di bancarelle che espongono frutta e prodotti della terra. Soprattutto mele annurche.
E’ qui il regno di questo antichissimo e saporito frutto: la gran parte della produzione campana arriva dai Campi Flegrei, dall’Aversano, dall’Alto Casertano e dal “quadrilatero” formato dai centri di Valle Maddaloni (ancora in provincia di Caserta) e di Sant’Agata dei Goti, Melizzano e Dugenta (i primi paesi del beneventano).
Si tratta di un’immagine, questa delle bancarelle che espongono grandi ceste di mele, che a suo tempo colpì particolarmente anche Eduardo De Filippo. Il genio teatrale partenopeo nel 1974 scrive ‘De Pretore Vincenzo’, lavoro incentrato sul percorso umano di un piccolo malvivente che si ritrova a fare i conti con la realtà della grande città dopo essere scappato dal piccolo paese dove era cresciuto. Il paese è Melizzano (uno dei centri del “quadrilatero”, che nel suo nome rievoca questo frutto): “Melizzano – scriveva De Filippo – sta a cinque chilometri da Napoli, prima di Aversa. Non è un paese ricco, anzi è poverissimo. Le sue risorse cominciano all’inizio dell’inverno, quando escono le mele. Tu vedi una processione di carretti carichi di mele rosse che mandano un profumo per tutta la campagna: quelle di prima scelta vengono a Napoli, e da Napoli se ne vanno per il mondo, e quelle piccole, bacate, restano in paese, per la gioia dei porci, e per sfamare noi. Ma tante mele! Tu le vedi a ceste, a cumuli, a cataste, casa per casa, bottega per bottega, tutte mele, mele, mele, mele…’.
Gli oltre trent’anni trascorsi, per fortuna non hanno stravolto lo scenario e l’immagine è rimasta sostanzialmente la stessa: mele, mele, mele e ancora mele.
Eppure stiamo parlando di un frutto che ha rischiato addirittura di scomparire: l’annurca, particolarmente consumata fino al periodo del secondo conflitto bellico mondiale, nei decenni Cinquanta-Sessanta era finita ad occupare un ruolo veramente marginale, pressa d’assalto dalle “nuove mele”, soprattutto quelle che arrivavano dal Nuovo Continente, più “belle” e soprattutto di più facile produzione.
Negli ultimi anni, poi, la rivincita: questo frutto, contrariamente al passato di defilippiana memoria, non finisce come cibo per i maiali. Anzi, come spesso succede nelle favole a lieto fine, ha conquistato le tavole dei gourmet più esigenti, tanto che oramai in riferimento alla mela annurca si usa contraddistinguerla con la definizione di “regina delle mele”, fregiata anche dal marchio Igp.
Eppure a guardarla non si direbbe. Tra le tante mele che espongono i banchi frutta dei supermercati, l’annurca è quella che a vista si presenta come la meno bella, molto piccola, poco accostabile alle tipologie dalle grandi dimensioni e dalle bucce lisce e lucidissime. Ma per coloro che riescono ad andare oltre l’apparenza ecco aprirsi un ventaglio gustativo senza confronti: dolce, succosa, aromatica, piacevolmente acidula e soprattutto con la particolarità di mantenere per lungo tempo queste unicità organolettiche.
La mela annurca è senza dubbio il frutto maggiormente caratterizzante la ‘Campania Felix’, anche perché fortemente legata a questa regione da tempi remotissimi, almeno da due millenni, come dimostrano i dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano (in particolare nella Casa dei Cervi), città romana sommersa insieme a Pompei dalla distruttiva eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Le sue origini, così come riporta Plinio il Vecchio nella sua ‘Naturalis Historia’, sono nella campagna puteolana, considerata all’epoca sede eletta degli Inferi. Proprio per la sua provenienza Plinio la chiama la “Mala Orcula”, in quanto prodotta intorno all’Orco (oltretomba, inferi). Ancora alla fine del XVI secolo, Gian Battista della Porta nel suo ‘Pomarium’, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente “[…] le mele che da Marrone, Columella e Microbio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoloi, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole […]”. Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati nei secoli successivi fino a giungere al 1876, quando il nome “annurca” compare ufficialmente nel ‘Manuale di Arboricoltura’ del botanico Giuseppe Antonio Pasquale.
Nei secoli precedenti la mela annurca si sposta dal suo luogo di origine ed approda in terre dove le caratteristiche del frutto si esalteranno: nell’area aversana e nel “quadrilatero” al confine tra Sannio e Caserta, poi via via nel Nocerino, nell’Irno, nel Picentino e successivamente nell’Alto Casertano.
Risale al 1950 l’opuscolo ‘Annurche e Sergenti nei melai della Campania’: un lavoro pubblicato da Giuseppe Fiorito, incentrato proprio sulla “regina delle mele”. Basta sfogliarlo per comprendere da subito che l’annurca non è una mela qualsiasi, ma un vero e proprio capolavoro, risultato della grande cura mostrata nei confronti di questo frutto dagli agricoltori.
L’annurca, infatti, non va semplicemente raccolta, ma va trattata e selezionata. Questo perché la maturazione del frutto non avviene sulla pianta: i pomi vanno raccolti ancora acerbi. E non per un semplice cruccio degli agricoltori, bensì per un motivo ben preciso: il peduncolo, particolarmente corto, che va in genere dai 7 ai 14 millimetri, si mostra poco resistente e non garantisce la completa maturazione sugli alberi.
La raccolta avviene nei primissimi giorni del mese di ottobre: le mele vanno messe in apposite ceste per poi essere delicatamente trasportate nei “melai”, il luogo dove avverrà la successiva maturazione. I frutti vanno raccolti con il bel tempo, in condizioni di asciutto e non devono essere bagnati nemmeno di rugiada.
Ovviamente la raccolta dei frutti dalla pianta viene effettuata a mano, così come l’intero processo lavorativo che avviene nei “melai”, con i suoi piccoli appezzamenti di terreno di larghezza non superiore a 1,5 metri, sistemati adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici. Vi vengono costruiti dei veri e propri letti formati da materiale soffice vario (paglia, aghi di pino, trucioli di legno,…). Fino a pochi decenni addietro venivano impiegati i cosiddetti “cannutoli”, le parti di minor pregio che derivavano dalla lavorazione della canapa, una fibra tessile che si ottiene da una pianta erbacea annua, particolarmente diffusa nella terra campana fino alla metà degli anni Sessanta (la Campania, insieme all’Emilia Romagna, produceva la quasi totalità di canapa che in quel periodo veniva prodotta in Italia).
Percorrendo le strade che congiungono i centri di Valle di Maddaloni con Dugenta e Sant’Agata dei Goti nel periodo ottobre-novembre si resta particolarmente colpiti dal “rossore” che questi frutti vanno acquistando adagiati sui morbidi “letti”, che dona una colorita vivacità a questo angolo della campagna che va abbandonandosi al riposo invernale.
Sui “letti” vengono adagiate soltanto le mele sane, indenni da attacchi parassitari e prive di residui antiparassitari e di sapori estranei. I frutti sono disposti su file, esponendo alla luce la parte meno arrossata. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare e da eventuali intemperie climatiche, i melai sono coperti da appositi teli (una volta venivano impiegate a questo scopo delle frasche, generalmente di castagno). Altra precauzione è quella di innaffiare le mele nelle ore serali, una pratica che fa sì che i frutti non perdano parte della percentuale d’acqua contenuta all’interno evitando, quindi, la possibilità di raggrinzimento del frutto, e che rallenti la maturazione mantenendo più bassa la temperatura.
In genere la maturazione ottimale delle annurche arriva a metà dicembre, in tempo per il periodo natalizio: non a caso costituiscono il modo migliore con cui in Campania terminano i luculliani pranzi delle feste.
Dalla raccolta al termine dell’arrossamento le mele vengono girate (“passate”) diverse volte, in media ogni 8-15 giorni, a seconda dell’andamento climatico. Ed ogni volta si esegue anche lo scarto dei frutti intaccati o marciti. La faticosa pratica per la maturazione e il laborioso processo per l’ottimale conservazione presentano notevoli costi di produzione rispetto alle mele che finiscono sul mercato subito dopo la raccolta: un punto certamente a sfavore per il posizionamento di questi pomi che, nonostante ciò, vede allargarsi la platea dei consumatori oltre a quelli campani e laziali, che da sempre apprezzano questo frutto.
E’ proprio l’arrossamento nei “melai” che esalta le caratteristiche qualitative della mela annurca, conferendole quei valori di tipicità che nessun altra mela può vantare. Un aspetto emerso anche da studi, come quello dell’Istituto Sperimentale per la Valorizzazione Tecnologica dei Prodotti Agricoli (Ivtpa) di Milano, che qualche anno addietro al VI convegno nazionale sulle biodiversità di Bari rese noti i risultati di uno studio sulle caratteristiche qualitative e tipicità del profilo aromatico della mela annurca. I frutti analizzati, raccolti a maturità commerciale presso il campo sperimentale dell’Istituto per la Frutticoltura di Ciampino (Roma), vennero divisi in due parti: la prima venne trasportata direttamente all’Ivtpa, la seconda finì per essere sottoposta per circa trenta giorni alla pratica dell’arrossamento (subito dopo la fine anche questa parte venne stata trasportata a Milano). Presso l’Istituto, poi, questi frutti, arrossati e non, vennero ulteriormente separati in altri due gruppi: una analizzata subito, l’altra sottoposta a conservazione in aria ad 1° C per sei mesi ed analizzata dopo tale trattamento. I risultati di quella ricerca parlano chiaro: le mele annurche, dopo la fase di arrossamento, hanno mostrato comunque acidità e consistenza e soprattutto un incremento della produzione di etilene e di aromi. Come se non bastasse è stato dimostrato che l’arrossamento porta anche ad un incremento del rapporto esteri/alcoli: tale fenomeno influenza positivamente la qualità dell’aroma, in quanto gli esteri sono i composti solitamente responsabili dell’aroma fruttato, mentre gli alcoli presentano generalmente degli odori che richiamano una nota di fermentato e senescente.
Le caratteristiche dell’Annurca tradizionale sono state ben descritte in un lavoro del 1995 voluto dall’Associazione Pro-Sant’Agata/Pro Loco (dal titolo ‘L’Annurca Tradizionale’, curato da Marco della Peruta e Marco Razzano). A vista il frutto si presenta non particolarmente grande, dalla forma appiattita o sferoidale. Il peduncolo è corto o medio-corto, di spessore medio o sottile; la buccia è spessa o medio spessa, giallo-verdastra, con striature rosse sul 40-70% della superficie, rosso intenso all’insolazione, epidermide liscia, cerosa, mediamente rugginosa, con piccole lenticelle poco evidenti, grigie e rugginose; la polpa è bianca, appena rossa sotto l’epidermide. Passando all’esame in bocca, colpisce per essere particolarmente croccante: la sensazione che si percepisce al momento della frattura del frutto, quando al primo morso si ha l’emissione di un caratteristico rumore (“crac”). Buona anche la durezza, la proprietà di resistere alla masticazione che si sente al primo morso e prosegue durante la successiva masticazione, nonostante il fatto che la stessa cali, ovviamente, nella fase di arrossamento. Al gusto il frutto si riconosce per essere mediamente dolce-acidulo: la dolcezza e l’acidità sono caratteristiche conferite dal saccarosio da una parte e dall’acido citrico dall’altro. Buona anche la succosità, data dalla quantità di liquido che viene aggiunto in bocca durante la masticazione.
Per degustare le particolarità di questo frutto si può approfittare della diciottesima edizione della ‘Sagra della mela annurca‘ organizzata a Valle di Maddaloni dalla Pro Loco Valle, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, i produttori di mele annurche e le associazioni locali. L’appuntamento è programmato da venerdì 22 a domenica 24 ottobre. Per maggiori informazioni: www.sagradellamelaannurca.it
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