di Pasquale Carlo
3.636 piccole vigne che formano un grande puzzle di 1.500 ettari, di proprietà di circa 1.000 soci. Non parliamo semplicemente di numeri. Sono queste le cifre che fotografano con immediatezza la forza su cui si basa il grande lavoro in termini di eccellenza messo in campo da ‘La Guardiense’ dal 2007, vale a dire dall’anno in cui Domizio Pigna (presidente allora, presidente oggi) chiamò alla guida della storica cooperativa l’enologo Riccardo Cotarella.
In media, ogni socio con la sua famiglia è proprietario di circa 1,5 ettari, mai concentrati in un solo posto, suddivisi in vigne la cui dimensione generalmente non raggiunge il mezzo ettaro. Piccoli appezzamenti che garantiscono, prima di tutto, un lavoro minuzioso. Piccoli fazzoletti di terra sparsi in diversi angoli delle colline telesine bagnate dalle acque del Calore, area dove si concentra gran parte del ‘Vigneto Sannio’. Piccole vigne le cui radici affondano su suoli differenti, diversi, che vanno dai terrazzamenti alluvionali, sabbiosi e ghiaiosi alle terre nere, marnose, passando per l’ignimbrite campana, frutto della grande esplosione dei Campi Flegrei avvenuta circa 39.000 anni fa.
Su questo mosaico di suoli nascono vini profondamente legati al territorio, testimoni autentici di una cultura ricca, antica, che si trascina dietro anche tanto mistero, leggende millenarie. Da questo profondo legame nasce il progetto ‘Janare’ presentato ieri nella suggestiva cornice del castello medievale di Guardia Sanframondi. Un progetto che rilancia – con una forte campagna di comunicazione – un concetto che è stato sempre linfa vitale per le produzioni della cooperativa, in particolar modo per quelle di questi ultimi tre lustri che hanno visto al timone l’enologo Marco Giulioli, il giovane che Cotarella scelse per affidargli quella che nel corso di questi anni è diventata la collaborazione più intensa tra le oltre 100 aziende che l’enologo di Monterubiaglio segue in tutto il mondo. Più intensa anche di quelle con le cantine delle star Sting, Bruno Vespa e Massimo D’Alema. Più intensa perché forse più autentica, sicuramente più profonda, fortificata dalla linfa di ogni singola vite di quelle 3.636 piccole vigne dei soci della storica cooperativa.
Le janare, donne dedite al culto di Diana, non sono solo simbolo di mistero, rese celebri per i loro riti vissuti intorno al famoso noce di Benevento, dove arrivavano volando dopo aver unto tutto il corpo ripetendo la celebre formula «Unguento, unguento, portami al Noce di Benevento. Sopra l’acqua e sopra il vento e sopra ogni altro maltempo». Le janare, con la loro danza sfuggita alle torture dell’Inquisizione, oltre a condire di magico la civiltà contadina sannita, simboleggiano – come ha sottolineato Federico Quaranta, volto noto rimasto folgorato dalla bellezza e dalla storia del territorio abitato dai Sanniti – la libertà. Donne che hanno pagato a caro prezzo la loro ribellione ai soprusi e alle discriminazioni.
Parliamo di un nome che è tutt’uno con quello de ‘La Guardiense’ dal 2009, quando giunsero sul mercato le prime bottiglie di una linea speciale, chiamata appunto Janare. Sei etichette che in questi anni hanno fatto incetta di riconoscimenti e hanno – cosa più importante – conquistato il palato di un consumatore più attento alla qualità: il piedirosso Cantone, gli aglianici Lucchero e Cantari, il fiano Colle di Tilio, il greco Pietralata e la falanghina Senete.
A cinque calici di falanghina è stato affidato il ruolo di protagonista nell’incontro riservato agli addetti ai lavori condotto da Riccardo Cotarella, Marco Giulioli e Luciano Pignataro. Cinque calici espressioni di un vitigno versatile e poliedrico, forse quello che meglio riesce ad esprimere le differenze di questi suoli, le influenze di quel complesso di fattori che incide sullo sviluppo vegetativo e riproduttivo della vite e che si racchiude sotto il nome di clima e il sapere che l’uomo ha maturato per interagire con suoli e clima. In una sola parola: terroir. Un viaggio interessante, dalla 2020 alla 2016.
Falanghina del Sannio Dop Senete 2020 – Partenza esplosiva, fortemente espressiva per un vino che nasce da una buona stagione climatica ma che ha dovuto fare i conti con uno degli anni più neri della storia della moderna viticoltura mondiale, a causa del Covid-19. Leggero il giallo paglierino alla vista. Floreale, con piacevoli richiami di agrume dolce al naso. In bocca il sorso è ampio, fruttato, concentrato. Incredibilmente già gioca bene le sue alternanze tra le morbidezze e la freschezza, garantita da una sostenuta spalla acido-sapida. C’è tanta roba che ci consente di affermare fin da subito che parliamo di un vino che diventerà ancora più godibile man mano che passeranno degli anni. Lo diciamo con forza, senza timore di poter essere smentiti ad un futuro banco di assaggio.
Falanghina del Sannio Dop Senete 2019 – Performante. Frutto di una vendemmia segnata da una stagione climatica positiva, particolarmente asciutta, con qualche sporadico giorno di pioggia che però non ha influito sulla qualità delle uve, con una produzione tornata importante anche dal punto di vista della quantità dopo annate segnate da gelo e grandine. Alla vista è diventato leggermente più carico il giallo verdolino. In bocca emerge un’annata che al floreale predilige il frutto a polpa bianca. Rispetto al precedente offre un finale sapido ancora più appagante, segnate dalle piacevoli amarezze che contraddistinguono il vitigno. Allo stato è forse quello che mostra più performance a tavola, con un ventaglio di possibili abbinamenti incredibile per varietà e quantità.
Falanghina del Sannio Dop Senete 2018 – Se vogliamo trovare il calice con meno appeal lo riscontriamo in quello di questa annata. Ma nessun difetto, per carità. Complice una gestione non semplice a causa del clima, tanto che l’avvio della fase vegetativa venne segnato fortemente da una violenta grandinata (3 maggio) che interessò una buona parte delle vigne della cooperativa, in particolare di quelle adagiate sul tufo grigio. Frequenti le piogge, motivo per cui nel calice riscontriamo minore esplosività e una maggiore diluizione. Con una bella sorpresa finale, data dall’allungo del sapido e dell’acidità, che dona tanta piacevolezza ad una bene più leggerina.
Falanghina del Sannio Dop Senete 2017 – Tutto il contrario del vino precedente. Frutto dell’annata più siccitosa del Terzo Millennio, sensibilmente dimensionata nelle quantità anche dalle gelate di metà aprile. Il clima caldo e asciutto si tradusse in un frutto integro che oggi sentiamo ancora pienamente nel calice. C’è una linea comune con la 2020: qui sentiamo le stesse note avvertite nel precedente ma più intense per ovvia maturità, con il floreale che lascia spazio alle erbe secche, con la frutta bianca sovrastata ora da quella gialla matura, a tratti esotica. Ad impreziosire il tutto l’eterna freschezza, quella immancabile spinta acida che fa di questo vino (come tutti quelli ottenuti da uve falanghina) un calice che non soffre assolutamente della paura di invecchiare di oscariana memoria. Godibilissimo.
Falanghina del Sannio Dop Senete 2016 – Lo dico subito. Per me quello preferito. Tra la 2017 e la 2016 avvertiamo bene lo scalino dell’invecchiamento. Annata partita non bene nelle vigne, con la peronospora favorita dalle abbondanti piogge primaverili che richiese una gestione impegnativa ma che, complice una bella estate segnata da notevoli escursioni termiche, si concluse nel migliore dei modi. Ed ecco che oggi apprezziamo una falanghina che si trasforma, acquisendo i lineamenti del grande bianco. Il giallo si fa carico, ma non più di tanto. Al naso esplode il miele, la frutta secca che diventa quasi confettura di frutti a polpa gialla mentre iniziano a serpeggiare le prime sfumature di idrocarburi. In bocca è suadente, polposo e piacevolmente fragrante per il suo connotato acido. Chapeau.
La degustazione ha offerto in appendice una sorprendente versione di greco (Pietralata) annata 2015 e un accademico aglianico (Cantari) annata 2014.
CONCLUSIONI – Tanti gli spunti emersi. Se non c’era assolutamente bisogno di dimostrare la capacità di invecchiamento che contraddistingue questo vitigno l’occasione è stata ghiotta perché Luciano Pignataro affidasse al presidente Pigna il compito di trasmettere al Consorzio Sannio, nelle persone del presidente Libero Rillo e del direttore Nicola Matarazzo, l’immediato attivarsi per ottenere per la Falanghina del Sannio Dop l’indicazione Riserva, come hanno recentemente fatto i cugini irpini con le Docg Fiano di Avellino e Greco di Tufo. Non una semplice menzione, ma il riconoscimento di un “titolo” che questo vitigno si è ormai conquistato sul campo. Una varietà che occupa un posto ben preciso in quella flotta di vitigni bianchi italiani (a cominciare dal verdicchio) da cui si ottengono vini che offrono il loro meglio dopo un giusto affinamento. Vini segnati da un’incredibile acidità che costituisce sicuramente il tratto più riconoscibile di una spiccata idoneità anche all’invecchiamento. Un profilo qualitativo destinato a crescere ulteriormente, come ben rimarcato da Cotarella, che ha raccontato con concetti semplici come questo vitigno si sia giovato finora dei cambiamenti climatici in atto.
Una conclusione tra le conclusioni: questo incredibile e affascinante viaggio, che noi ci sforziamo di raccontare, diventa possibile solo grazie al grande lavoro che mille appassionati viticoltori, che con tanto impegno seguono la voglia di sperimentare che Cotarella ha introdotto tra le mura dello stabilimento di contrada Santa Lucia. Un impegno che a volte deve fare i conti con esperimenti che si presentano quasi con tratti schizofrenici, ma che loro (i tenaci mille viticoltori) sposano sempre in maniera convinta e appassionata. Ed è questo feeling il motivo per cui – ha promesso ancora una volta l’enologo umbro – quella con ‘La Guardiense’ sarà, in ordine cronologico, l’ultima collaborazione che lo vedrà impegnato fino al momento dei saluti di una brillante carriera.
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