Il Trigabolo di Argenta è uno dei miti della cucina italiana alla stregua di Peppino Cantarelli, di Paraccucchi del San Domenico di Imola e di Marchesi. Abbiamo recuperato grazie a un post di Igles Corelli lo splendido racconto fatto da Stefano Bonilli sul suo Papero Giallo il 31 ottobre 2011. Non è la prima volta che lo recuperiamo: chiusi il Papero Giallo e Gazzetta Gastronomica dopo la sua morte nel 2014, i suoi post continuano a navigare nel web perché anche qui vale il principio che nulla si crea e nulla si distrugge. Riteniamo che il rapporto con la storia del passato sia un punto imprenscindibile per chi va oltre la passione di un piatto o il piacere di mangiare e intende avere un rapporto professionale con il mondo gastronomico. Stefano è stato l’unico della sua generazione ad aver avuto questo bisogno di raccontare il passato al popolo del web che allora si affacciava nei ristoranti. Mirabile il suo post sui Cantarelli per esempio.
La band rock del Trigabolo, l’unica esistita nella cucina italiana. Una storia vera diventata leggenda
di Stefano Bonilli
In una cittadina di ventimila abitanti, in provincia di Ferrara, c’era una volta un ristorante di nome Trigabolo.
Più che una storia quella che vi racconto è una favola o, se volete, una leggenda della ristorazione italiana.
Tutto ha inizio nel 1979 quando il rappresentante di giocattoli Giacinto Rossetti con il socio Gualtiero Musacchi rileva una pizzeria in piazza Garibaldi 4b, ad Argenta.
In cucina assume un giovane cuoco che ha lavorato sulle navi, si chiama Igles Corelli.
Igles chiama un diciasettenne che ha lavorato con lui e si chiama Bruno Barbieri.
Il terzo della band è un altro giovanissimo, fa il pasticcere, è appena uscito dalle scuole professionali, si chiama Bruno Gualandi.
A questo terzetto aggiungete un maitre assolutamente atipico, Bruno Biolcati, ed ecco la squadra che, capitanata da Rossetti, rivoluzionerà dalle fondamenta la cucina fin lì fatta in Italia.
Perché i rockers del Trigabolo sposano la nuova cucina con i prodotti del territorio e sono tra i primi a fare una cucina diversa da tutto quello che c’era allora in Italia.
Marchesi in fondo era un francese in Italia mentre loro, i rockers, erano dei terragni, come dice Rossetti, erano figli della grande provincia italiana, delle Valli di Comacchio e della materia prima che era l’essenza della cucina del Trigabolo, cioè prodotti dell’orto, grande uso delle erbe aromatiche, ma anche una cacciagione che quasi più nessuno dopo di allora ha avuto di tale qualità e ha potuto cucinare, pensate ai moriglioni, ai fischioni, alle anatre, alle folaghe per non parlare degli inarrivabili polli e conigli di cortile.
Nel menù del Trigabolo si potevano trovare il ventaglio di fischione in salsa di funghi e tartufi, il piccione al forno al cacao e broccoletti, il germano ripieno al pescegatto in salsa di caffè e mandarino, la suprema di fagiano alla crema e prezzemolo fritto.
Poco tempo fa Giacinto Rossetti mi ha detto che già allora non era possibile fare la grande cucina perché le materie prime di qualità somma erano quasi introvabili oppure, come capitava a loro, erano fornite da clienti che erano anche cacciatori e gourmet, come l’industriale Marco Galliani che dalla Scozia, dove aveva una riserva di caccia, portava spesso animali eccezionali e introvabili sul mercato italiano, ma questo si scontrava con le Usl e le regole molto rigide che disciplinavano l’uso di materie prime come la cacciagione.
“La ricerca di una qualità estrema quale noi allora praticavamo era ed è impossibile – mi ha detto Rossetti – a meno che non ci siano enormi investimenti ma anche così basta uno della Usl per sospenderti la licenza perché si è stretti da mille regole”.
Ma torniamo indietro nel tempo, torniamo alla favola che vi stavo narrando e alla volta che Federico Umberto d’Amato, curatore della guida dell’Espresso, portò al Trigabolo Henri Gault, uno dei più famosi giornalisti gastronomici del mondo, per far mangiare al francese i ravioli di faraona allo zabaione di parmigiano – piatto memorabile – e Rossetti disse che erano appena stati tolti dal menù e si rifiutò di servirli. In tavola arrivarono invece budino di cipolla al fegato grasso e zenzero, il pasticcio di cervello alla fonduta di pomodoro e l’insalata di calamaretti alle fave e asparagi.
Tutto era fatto espresso, nulla era riscaldato o rigenerato, anche le verdure erano tagliate lì per lì e la sfoglina Gianna iniziava a tirare la sfoglia col mattarello solo quando partiva la comanda.
Henri Gault, un signore che poi sarebbe nient’altro che “l’inventore” della Nouvelle Cuisine insieme con Christian Millau, rimase sbalordito, folgorato, basito da una cucina di tale maestria che Igles Corelli e la sua band avevano mandato in tavola senza timore reverenziale per i due critici gastronomici e il loro giudizio.
E d’altronde perché avrebbero dovuto avere timore loro che provavano nuovi piatti anche alla notte, dopo che era finito il servizio.
Così erano nati i tagliolini ai pesci dell’Adriatico e crema di prezzemolo, le crespelle allo Stilton e pistacchi, i garganelli piccanti in salsa d’aglio, la zuppa di pesci allo zafferano, lo zabaione di sogliola al pepe rosa, la pernice di Scozia – che però la Usl non doveva scoprire nel frigorifero – arrostita con succo di mirtilli e polenta.
Germano reale
Uno dei grandi piatti del menù del Trigabolo del 1987 era il germano reale al fegato grasso e coriandolo, altra prelibatezza era la scaloppa di fegato d’oca alle pere e pepe rosa, e ancora il medaglione di vitello alla crema di lattuga e mandorle.
E non vi ho parlato dei dolci e di quel fenomeno che è stato Mauro Gualandi famoso per i suoi bignè fritti caramellati, una nuvola di sapore contenuta in un velo sottilissimo e croccante, con la crema ghiacciata e lo zucchero che si caramellava nella salamandra.
Uno dei piatti più copiati in quegli anni.
E così incominciano ad arrivare nelle cucine del Trigabolo giovani cuochi attratti dalla fama dei suoi piatti innovativi e dalla banda di cuochi rock che quei piatti inventano, arriva Italo Bassi, oggi chef all’Enoteca Pinchiorri, i fratelli Marcello e Gianluca Leoni, e anche grandi cuochi come Senderens che siede alla tavola del Trigabolo per assaggiarne i piatti ormai famosi.
Giacinto Rossetti in tutti gli anni di vita del Trigabolo crea una cantina che ha pochi eguali a livello internazionale con tutta la produzione italiana che vale, nuova e sconosciuta, perché Giacinto è uno che faceva stupire Veronelli, e così Borgogna come se piovesse, con bottiglie già allora introvabili, impossibili e rare, Bordeaux, Riesling renani e via così.
La bella favola dura fino all’inizio degli anni Novanta, il Trigabolo prende le due stelle Michelin, è ai vertici della guida dell’Espresso ma non è certo un locale popolare, sta in una cittadina fuori da qualunque rotta turistica, i costi di una così alta qualità sono enormi e i ricavi meno.
Nella fase di difficoltà molti approfittano della situazione per “strangolare” Rossetti, quello della cucina italiana non sempre è un mondo di gente per bene.
Gli amici cercano di intervenire ma non c’è niente da fare e così nel 1993 il Trigabolo fallisce e chiude con un seguito di voci, maldicenze e calunnie che suonano come una vendetta contro chi è stato tanto innovativo e bravo.
La banda rock si sparge per tutta Italia, la favola finisce e finisce male.
Erano giovani, stipendio basso, quando c’era, ma tanta bravura e inventiva.
Ad Argenta, vicino a Ferrara, d’inverno nebbia, d’estate zanzare.
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