di Luciano Pignataro
Paffete, nel vuoto mediatico di agosto arriva il post di Milena Gabanelli che ottiene un gran seguito su Facebook (metà contro, metà favorevoli) e che viene rimandato al mittente con un ottimo e approfondito articolo di Massimiliano Tonelli sul Gambero Rosso.it
Il fatto è semplice: un amuse bouche della brava Aurora Mazzucchelli diventa il simbolo di tutto ciò che gran parte degli italiani, probabilmente la maggioranza, pensa dell’ alta cucina.
Ho letto più o meno gli oltri mille commenti, anche sui post di Guido Barendson e Aldo Palaoro che sono poi quelli che mi spingono adesso a scrivere quello che penso da parecchi mesi ormai. Lo faccio qui perché sono all’antica, credo che Facebook sia un luogo di comunicazione più che di discussione perché poi finisce sempre a pesci fetenti, a chi sono io e chi sei tu.
Dietro la tastiera, senza confronto fisico, tutti perdono la timidezza e diventano leoni.
Eliminerei gli oltre trecento commenti dei precisini che hanno sottolineato che si tratta di un amuse bouche e non di un antipasto. Ok, e se anche è, la sostanza politica non cambia proprio. Anzi approfitto per dire che anche io mi sono rotto di ordinare tre piatti per doverne mangiare poi sei se tutto va bene perché bisogna seguire il rituale del benvenuto dello chef, un antipasto inserito per provare, poi il pre-dessert e infine le coccole (Odddiooooooo, Cirooooooooo). E poi, per introdure il tema, il 99% degli italiani non sa distinguere un Benvenuto da un antipasto perché tutto ciò che precede il primo è, per convenzione comune, un anti-pasto. Risibile, e tutta paraburocratese italiana, l’osservazione che abbia usato l’account del Corriere e non il personale: non capisco il senso della distinzione visto che se un giornale ti da uno spazio è perché tu ci scriva dentro. Risibile anche che lo abbia fatto per farsi pubblicità: non sono mille commenti su Facebook che ti cambiano la vita.
Eliminerei anche i trecento e passa commenti che dicono, ok dopo andiamo a mangiare che fanno da contraltare ai corrispettivi in cui si lamenta la rozzezza del popolo italiano. Mi ricorda, davvero, le reazioni del Pd verso gli “idioti” che non capiscono nulla di spread. Beh, se non capiscono forse non siete stai voi bravi a spiegare visto che il mestere dei politici sarebbe questo per conquistare consenso.
Sgombro poi il campo da ogni dubbio sull’importanza dell’alta ristorazione, sugli sforzi fatti dal comparto nel suo insieme pur con delle distorsioni sempre più evidenti che sono nell’ordine:
1-L’incapacità di molti cuochi di ragionare con materie prime serie e non seriali
2-Lo scollamento sempre più evidente fra cucina d’autore e cucina di territorio,
3-La prevalenza dell’estetica sull’etica e sul sapore.
Il punto vero, contenuto nei post di Barendson e Palaoro su Facebook è un altro: perché questo è possibile? Perché una giornalista scafata e colta cerca il consenso su questi temi e in questo modo così greve? Davvero pensiamo che sia un post lanciato a caso? Certo che no. Per noi giornalisti (nel senso che vale anche nel mio piccolo, eh) Facebook è un segnavento perfetto per cogliere gli umori e la linea di Milena Gabanelli su questo tema non è nuova: anche se non era più lei responsabile, basta ricordare le due puntate di Bernardo Iovene sullo stato della gastronomia in Italia che comunque puntava il dito su certi eccessi oltre che, giustamente su certe zone grige di conflitti di interesse e il lavoro nero. C’è, nel suo atteggiamento, anche il lascito culturale di una certa sinistra moralista e pauperista che ha sempre considerato questo settore solo un cumulo di sciocchezze per ricchi e annoiati, lo storicismo che irrideva a Braudel e alla scuola degli Annali per intenderci (che studiavano il grano invece delle battaglie)
Il punto dunque non è: possibile che la Gabanelli non capisca?, perché ha capito benissimo.
Dobbiamo chiederci allora perché fa sul cibo una operazione, un gesto, che nessuno si sognerebbe di replicare sulla musica classica sull’arte o sulla cultura. Che cosa la spinge a spogliarsi del suo sapere per sentirsi parte della massa, magari anche fare la figura dell’ignorante perché non distingue amuse bouche da un antipasto? Cosa la spinge a ripetere con Fantozzi: la corazzata Potomkin è una boiata pazzesca?
La risposta è molto semplice e sta in quello che ha scritto Gramsci ormai 90 anni fa: l’Italia è il paese della separazione tra gli intellettuali e masse popolari. Una scissione che non si è mai ricomposta nonostante la grande funzione didattica sviluppata dalla televisione soprattutto negli anni ’60. Gli intellettuali scrivono i libri per interloquire fra loro e quelli che hanno successo sono considerati pop e fuori dai circuiti che contano.
Il punto è che pochi italiani comprano libri e vanno al museo e ascoltano musica classica, tutti mangiano e tantissimi vanno allo Stadio per sfogarsi invece di incendiare Esattorie, Comuni e Parlamenti.
Ora il problema è che tutto il comparto dell’alta ristorazione si è spostato sempre più verso una sfera intellettuale preclusa alla maggioranza delle persone per i costi e per la forma. Fateci caso: è molto difficile che un italiano adotti un Tre Stelle Michelin come proprio e lo indichi come un posto dove andare.
Se chiedete a un parigino, a un catalano, a un tedesco medi, quali sono i migliori ristoranti del proprio paese vi citerà senz’altro trestellati e locali in classifica della 50Best. Ma quanti romani direbbero che il migliore a Roma è il tristellato La Pergola? Quanti milanesi vi parlerebbero di Seta o del Vun? Come ha osservato qualcuno, è un caso tutto italiano e lo si evince dalla dicotomia stridente tra le classifiche di Tripadvisor e quelle delle guide specializzate.
Ora la domanda di fondo, e qui arriviamo alla riflessione che davvero mi interessa, è: ma dove sta scritto che la critica e il giornalismo gastronomico italiano debbano occuparsi solo di un aspetto della gastronomia? Perché si alimentano i fenomeni di ristoranti vuoti che vivono grazie a consulenze dei cuochi e ad altre iniziative del circo? Perché si è sviluppata una tendenza assolutamente autoreferenziale alla stregua di quello che accade del mondo culturale? Perché si incoraggiano fenomeni in cui il virtuosismo dell’esecuzione prevale su ogni altra considerazione, non dico la compatibilità economica, ma quanto meno il successo di pubblico? Perché il primo che copia mode estere senza metabolizzarle diventa un genio?
Ci possono essere risposte varie e cattive a queste domande, sarebbe facile entrare nella sfera del conflitto di interesse e via di questo passo. Secondo me il problema più grave di tutti è che a maggior parte di coloro che si occupa di cibo ha rinunciato a capire, non ha più l’ambizione di interpretare e raccontare il fenomeno nel suo complesso e si occupa di ciò che sa perché fa figo. Un po’ la deriva che ha preso una certa critica del vino secondo la quale il bicchiere se non puzza non va bene.
Così nel cibo: se un ristorante, pur lavorando al massimo livello piace va in qualche modo declassato perchè alla portata di tutti. E si passa al successivo più introverso per il brivido della scoperta.
Certo fa molto figo parlare di Borgogna e di Eleven Madison, ma quanti sono in grado di contestare una sciocchezza che hai detto? Sui luoghi dove vanno tutti questo non è possibile e ognuno può interloquire.
Il bivio è dunque chiaro per chi fa critica o giornalismo. O si orienta l’avanguardia, ma quanto avanguardia se nessuno poi segue, o si riesce ad incidere sugli orientamenti comportamentali di massa e di mercato.
Il primo percorso è più facile, non voglio dire banale, ma sicuramente e paradossalmente più rassicurante ed è quello in cui sta avvitando gran parte della critica che è ormai un circoletto chiuso in cui sono compresi giornalisti, cuochi, rivenditori di prodotti, clienti particolarmente facoltosi o illuminati sulla via dal Kaxxobushi e della chips di rapa rossa.
Il secondo è molto più complesso perché ha a sua volta una scorciatoia: fare come la Gabanelli, ossia cavalcare l’onda più retrograda senza porsi il problema di fare una distinzione. Ad un certo punto lei interloquisce con un commento: “devo dire che era pieno, forse essere un poco masochisti piace a parecchia gente”.
No, non era pieno per quello ma perché da Aurora Mazzucchelli si mangia da Dio e la sua cucina è leggibile da chiunque, non solo da un super esperto.
Dobbiamo dire che con 50TopPizza abbiamo cercato di dare una risposta in questa direzione. La critica tradizionale ha compreso tardissimo il fenomeno Pizza e quando lo ha fatto ha adottato subito i modelli meno diffusi, quelli che più si avvicinano alla gastronomia per intenderci, indicandoli come unico sbocco possibile del futuro di questo cibo e disprezzando la tradizione di cui non aveva contezza minima ignorando almeno due secoli di storia gastronomica della città più popolosa d’Italia dal ‘400 al ‘900. C’è stato un momento, anche per la intelligente pressione commerciale di un mulino del Nord, per cui tutto quello che era tradizione faceva schifo: chi si ricorda la prima edizione della Guida del Gambero Rosso? Noi invece abbiamo guardato con rispetto a questi sforzi e non li abbiamo ignorati, ma non abbiamo affatto dimenticato l’anima del fenomeno, che è popolare perché con la crisi che c’è la pizzeria è diventata il lusso accessibile a tutti. Non abbiamo dimenticato che il modello che più si sta esportando è proprio quello tradizionale classico napoletano. Pensiamo che siano entrambi facce di una stessa medaglia. Per fare nome e cognome, Pepe ha fatto la sala Autentica che fa sbrodolare i gastrofighetti ma nel suo menu ha sempre la pizza a portafoglio a un euro e mezzo. Ecco perché è il numero uno, perché riesce a interloquire sia con gli specialisti sia con le famiglie. Alza l’asticella del confronto senza strappare le sue radici familiari, territoriali e popolari. Nella sue sale trovi bimbi felici, ossia il futuro. Il nostro futuro.
Abbiamo voluto, e permettete, ci siamo riusciti alla grande, evitare che anche la critica sulla pizza seguisse il destino autoreferenziale dei ristoranti. Ossia parlare a pochi e non a tutti.
Ritornando alla ristorazione classica, quanti stellati italiani sono capaci di fare lo stesso?
La strada, con molta chiarezza, per me la sta indicando Massimo Bottura con l’iniziativa dei refettori che non è la solita iniziativa di beneficenza, bensì l’espressione di un ragionamento profondamente politico e strategico sulla questione del cibo nel mondo.
Chi fa critica ha il dovere di seguirlo. Bisogna smetterla di scrivere per farsi dire dai cuochi e dai pizzaioli quanto sei bravo e godere delle condivisioni su Facebook. Bisogna scrivere, e giudicare stando dalla parte di chi al ristorante e in pizzeria va e paga. Senza populismi ma ricordando, banalmente, semplicemente, umilmente, che alla fine lo scopo ultimo dell’esercizio di ogni forma di espressione è la libertà di critica che tanto più è tale tanto più è autorevole.
L’alternativa? L’avvitamento su se stessi e restare avvolti in nauseabonde ragnatele aspettando che TripAdvisor ci venga a mangiare sottolineando a tutti il nostro inutile scrivere, se non per noi stessi.
E come disse la buon’anima, IO NON CI STO.
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