di Mariangela Agrusti
La focaccia barese, in un mondo onesto e giusto, dovrebbe far parte del patrimonio Unesco. Fa scenografia, lì, tra la statua di san Nicola, un lungomare affollato da polpi da arricciare, e i capitelli del castello Svevo.
Hanno provato ad imitarla la “fcazz”, talvolta con tentativi maldestri, ma è facile riconoscere subito un falso da un vero, come un quadro di Matisse. Tra i caratteri di riconoscimento: la forma a ruota, il pomodoro che non affonda nell’impasto, la base croccante e l’interno soffice. Tant’è.
La ‘nostra’ rientra in una tradizione collaudata di forni centenari, e quando a Bari chiedi una ‘ruota a viaggiare’, è più probabile tu sia dal fornaio che dal gommista. Perché a Bari le focacce si vendono ‘a ruote’: due ruote, mezza ruota, ovvero mezza focaccia, la mattina per la colazione dei campioni, e il pomeriggio per la merenda da leoni. Ovviamente, il colpo di grazia prevede l’accompagnamento alla birra locale.
Dunque, appollaiarsi di fronte al lungomare, con la focaccia e la birra per dieci brevi minuti, vi farà dimenticare il tasso mobile, la gioventù che non tornerà più, e le cambiali dell’iPhone
Nata nelle vicine Altamura o Laterza, dove c’è un’altra nota tradizione di forni, trova il suo acme a Bari. A Laterza, nel tarantino, paese celebre anche per la produzione di pane, è ancora più buona fredda, e per chi ama le forti emozioni, accompagnata da qualche fetta di mortadella all’interno.
La focaccia nacque, in origine, come variante del pane di grano duro, per usare il calore emesso dal forno in attesa che fosse alla temperatura ideale per la cottura del pane. Insomma, come le cose migliori, nacque per sbaglio, o meglio per caso. In una casa signorile barese, è stata rinvenuta, addirittura, una teglia risalente al 1200-1300, ora conservata in Museo.
Oggi, gli ingredienti della focaccia abitualmente venduta nei forni sono: semola rimacinata, sale, lievito, acqua, talvolta zucchero, e/o strutto, l’ingrediente innominabile, ma non lo deve sapere nessuno, sia chiaro. Il condimento è costituito da pomodori, olive e origano. Olio a profusione, Evo, di semi o altro, come base della teglia, dentro l’impasto, e anche sopra. Perché la focaccia deve quasi friggere in forno, ad una cottura intorno ai 270 gradi, come se non ci fosse un domani. E invece un domani ci sarà, e segnerà un numero sulla bilancia.
Uno dei più conosciuti panifici storici di Bari, ”Fiore”, si trova all’interno del centro storico, nella parte vecchia della città, esattamente lì dove Cassano ha imparato a tirare calci e l’arte della polemica. Entrare nel panificio Fiore è un po’ come farsi un giro nella macchina del tempo. Fermata: cento anni fa, quando nacque il panificio. Il forno è immerso tra quadri di San Nicola, il venerato patrono della città, e quadri di Madonne, a ricreare un’atmosfera surreale, quasi fosse un altare innalzato alla focaccia. Tutto questo in un minuscolo spazio che odora di cucina delle nonne, tra i modi spigolosi e robotizzati del proprietario. Immersa tra tarallini, calzoni alle cipolle, calzoni rustici, la focaccia, cotta in forno a legna del 1912, ruba tronfia la scena, rapendo lo sguardo degli avventori, sempre più stranieri.
Poco più in là, il panificio Santa Rita, con un’insegna dall’effetto vintage non voluto, ne fa la versione sottile. Qui le ruote volano come frisbee, mezza ruota è un compromesso gestibile anche dagli stomaci più delicati, ad un prezzo che unisce e fortifica l’uguaglianza tra i popoli. Attenzione: le fila del panificio Santa Rita se la battono, soprattutto di sabato, con quelle di Louis Vuitton la vigilia di Natale in centro, quindi premunirsi di pazienza e biglietto.
La focaccia, invece, con lo sguardo rivolto al passato e al futuro, la potete trovare dal Panificio Adriatico, dove il panettiere Beppe Concordia mescola grani antichi, semi e spezie per le sue focacce e il suo pane, dal basso indice glicemico, ma dal gusto inalterato.
Le è stato dedicato anche un documentario, “Focaccia Blues”, in cui si narra di un reale aneddoto arrivato sulle pagine del New York Times.
Ad Altamura, nel 2001, inaugurò il primo Mac Donald’s. Pochi mesi dopo, aprì una panetteria gestita dai fratelli Di Gesù. L’anno successivo, il colosso fu costretto a chiudere per mancanza di clientela, totalmente umiliato dalle vendite del panettiere- focacciaro. Per cui, forse c’è ancora vita sul pianeta, stringiamoci forte.
Comunque, qualcosa sta per cambiare. E’ in dirittura d’arrivo, grazie al Consorzio della Focaccia Barese, nato nel 2010, l’iter per il riconoscimento del marchio Igp (Indicazione Geografica Protetta) per quei panifici che rispetteranno un disciplinare concordato tra il Consorzio e l’Università di Bari. Promotore, un panettiere di quarta generazione, Giovanni Di Serio, titolare di varie focaccerie, tra cui “Pupetta”, dove impera un’albanese che parla barese come Checco Zalone.
Gli ingredienti della focaccia, per poter ottenere il riconoscimento Igp, dovranno essere: semola di grano duro, farina 0 o doppio zero, olio Evo, patate e lievito naturale. Il resto, dunque, saranno imitazioni o libere interpretazioni.
Una scelta dovuta al fatto che la tradizione originaria non sempre rispettata vede spesso panificatori usare farine non tracciabili, olio di semi e sansa al posto dell’Evo, ed esportare lievitati precotti, che diventano un surrogato della reale focaccia, alterandone la versione originale. “D’altronde, lo stomaco comanda” fa notare il Presidente del Consorzio con molta lungimiranza. E di certo, se dopo aver consumato, vi sentiste lo stomaco trascinarsi in volo come una mongolfiera, o come se aveste ingurgitato l’intera teglia in lamiera, è probabile che siate incappati in un impasto problematico.
Nel frattempo, in attesa della definitiva consacrazione, i baresi, tra qualche settimana, cominceranno ad affollare le spiagge poco distanti dalla città. Cosa ci sarà tra l’asciugamano e la sedia sdraio a portata di braccio? Ovviamente, avvolto in un foglio di carta unto, il loro cadeau preferito: la “fcazz”.
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