di Giulia Gavagnin
E’ un martedì sera a Bellagio, sul Lago di Como. Fino al tardo pomeriggio un folto gruppo di ospiti stranieri, a un primo colpo d’occhio anglosassoni e indiani, hanno festeggiato un lussuoso matrimonio sulla terrazza di uno dei più prestigiosi hotel d’Italia. Abiti variopinti, sorrisi e ammiccamenti, camerieri in livrea che scandivano perfettamente il timing del loro divertimento. Si capisce subito che qui ogni evento è davvero un’occasione speciale.
All’imbrunire gli ospiti dell’hotel si sono mescolati ai reduci dello sposalizio, tra un cocktail e una tisana defatigante, serviti sulla terrazza a fianco, sempre con vista sul lago. La festa scema in un vociare rilassato e a poco a poco cala il silenzio, interrotto dalle prime note di un pianoforte suonato con incontestabile perizia.
Siamo a Villa Serbelloni, Bellagio, sul lago di Como. Una delle più celebrate enclave per il turismo di lusso internazionale nel nostro paese, senza possibilità di smentita.
Edificata a metà dell’ottocento come residenza privata di una ricca famiglia, viene convertita in albergo da uno svizzero-tedesco illuminato, il sig. Breitschmid. Subito dopo la prima guerra mondiale viene acquistato illeso da Arturo Bucher e le sue mura non verranno intaccate nemmeno dalla guerra successiva, perché abili interventi diplomatici ne hanno consentito l’annessione al territorio svizzero.
Così, l’edificio e il mobilio giungono originali fino ai giorni nostri nella medesima magnificenza di allora, sempre sotto la proprietà della famiglia Bucher, che l’amministra con rigore elvetico.
Da oltre vent’anni Ettore Bocchia è l’executive chef dei ristoranti di Villa Serbelloni, tra questi il famoso Mistral. S’è parlato molto di Bocchia e del Mistral anni addietro, quando irruppe la rivoluzione della cucina “molecolare”: termine che sapeva di avanguardia e di rivoluzione, di rottura di tutte le regole e oggetto di abuso e di travisamento come pochi altri.
Non serve nemmeno dirlo, erano i tempi di Ferran Adrià, dei fumi freddi da azoto liquido e dello chef Apprendista Stregone. Eppure, sebbene non a caso la parola “Fantasia” fosse all’ordine del giorno, il vero teorico della cucina molecolare è stato proprio Ettore Bocchia, che con il chimico Davide Cassi ha scritto “Il Gelato Estemporaneo”. Testo di regole e di tecnica, più che di alchimie. Di Scienza in Cucina, per citare un altro precedente illustre.
Eppure, la chimica applicata alla cucina nella filosofia di Ettore Bocchia non serve nè a stravolgere la cucina tradizionale né, tantomeno, a introdurvi narcisistiche stravaganze. Tutt’altro. Nel manifesto della cucina molecolare lo chef dichiara che questa serve a sviluppare nuove tecniche di cucina e a creare nuovi piatti, a condizione che: 1) ogni novità ampli e non distrugga la tradizione italiana; 2) le nuove tecniche e i nuovi piatti valorizzino gli ingredienti naturali e le materie prime di qualità; 3) sia attenta ai valori nutrizionali e al benessere di chi mangia; non solo ad aspetti estetici o organolettici; 4) realizzi i suoi scopi creando nuove texture progettate a livello microscopico grazie alla conoscenza delle proprietà fisiche e chimiche degli ingredienti.
L’intento di Ettore Bocchia, pertanto, è sempre stato finalizzato a “migliorare” quanto già esiste, ed eventualmente “innovare” senza la presunzione di essere Einstein dei fornelli. Tutt’altra cosa rispetto alle leggende e credenze popolari che circondano la cucina “molecolare”.
Così, un martedì sera di ottobre, verso la fine della stagione (la chiusura dell’hotel è prevista per il 3 di novembre), mi sono trovata a conversare con lo chef di origine parmense su questi temi, nonché su un altro topic che è sempre di rilevante interesse tra gli appassionati di ristorazione. La perdita della stella Michelin, avvenuta nel 2021, dopo ben sedici anni.
In una sala di ristorante gremita di martedì sera, benché di ospiti soprattutto stranieri, Ettore Bocchia fa intravvedere ancora un po’ di rammarico per quell’episodio. “La stella è sempre un riconoscimento al lavoro di uno chef, noi ci teniamo molto, però la vita continua”. Alla mia obiezione che quel che conta è quello che vedo, cioè una sala piena di clienti in un ristorante in cui il ticket medio è di 250 Euro a persona (questo è il prezzo del menu degustazione di sette portate, alla carta si spenderà qualcosina di meno, ma è ben difficile resistere alle chicche della cantina di Villa Serbelloni) lo chef risponde: “questa è sempre la cosa più importante ma vuole sapere quali sono i rumors sulle manchevolezze della nostra cucina? Che alla nostra materia prima mancasse “qualcosa”.
Cosa, è davvero difficile da dire. La materia prima utilizzata a Villa Serbelloni è semplicemente straordinaria.
Durante la cena mi sono state servite: le angulas spagnole di difficilissima reperibilità in Italia e di altissimo costo. Sono gli avanotti di anguilla, in Spagna considerate un’autentica prelibatezza come i percebes o come le pinne di pescecane tra gli orientali. Il prezzo è variabile ma difficilmente è più basso di trecento euro al chilo.
Una variazione di foie gras “etico” di Eduardo Sosa, da oche allevate senza gavage. Decisamente il miglior foie gras assaggiato in un ristorante italiano negli ultimi anni, dove sono impeccabili sia la scaloppa che la terrina, con la sorpresa del piccolo wafer.
I ravioli di pavone con il loro brodo, carne di pregio rinascimentale, in carta da sempre e signature dish quanto l’immancabile rombo assoluto, fritto nello zucchero. Un piatto semplicemente magnifico.
Il savarin di riso omaggio a Milena Cantarelli che non ha nulla di stravagante e, in ossequio ai principi del Bocchia – manifesto sfrutta la tecnica per migliorare l’esistente. Il savarin è un piatto iconico della cucina italiana, non troppo conosciuto, se non presso i gourmet più colti. Ed è vero che le origini dello chef sono vicinissime a Samboseto, ma tenere in menu questo piatto straordinario è anche segno di attaccamento alla grande cucina italiana di cui egli a buon diritto può considerarsi testimone.
La costoletta di cervo alla milanese ripiena del suo cuore e, a chiudere il celeberrimo rombo assoluto fritto nello zucchero.
Piatti tutti mirabili, eseguiti alla perfezione, certo non volti alla stravaganza, ma alla solidità più borghese. Sarà forse stata questa la decisione infausta assunta dagli ispettori, allora. Grande cucina borghese con servizio conseguente, musica sinfonica, poco punk, per nulla indie.
Un grande ristorante in stile francese, che se fosse stato Oltralpe “a peso” di macaron ne avrebbe due e nessuno glieli toccherebbe.
Ma così va la vita, l’importante è avere il ristorante pieno, ca va sans dire.
Grande cantina, si diceva: ad accompagnare il tutto un Barolo Marchesi di Barolo del 1945, e non serve dire altro.
In occasione dei cento anni dall’acquisizione dell’hotel da parte della famiglia Bucher, l’attuale proprietario Jan Bucher in un bel volume commemorativo ha dichiarato di aver dato una chance e coltivato il talento di Ettore Bocchia che s’era presentato a fare la stagione a Bellagio dopo svariate esperienze in giro per l’Europa. Lo chef era sempre squattrinato a forza di spendere in pregiate bottiglie di vino più di quanto guadagnasse e questa sua inclinazione, unita alla capacità di elaborare piatti adatti ai grandi vini lo aveva convinto a farne il suo executive. Dietro a questa storia c’è senz’altro il calvinismo svizzero, ma la conoscenza del vino da parte di uno chef non è per nulla scontata e, anzi, purtroppo molti blasonati cuochi ne sanno davvero poco. Quando dietro a un grande piatto ci dovrebbe sempre essere una grande bottiglia e la grandezza del ristorante Mistral dovrebbe essere celebrata anche per questo.
In definitiva, un grande indirizzo per gli amanti di una cucina classica versione reload grazie alla tecnica di cucina sopraffina di Ettore Bocchia.
Mistral
Via Teresio Olivelli 1
22021 Bellagio (CO)
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