Alcuni ristoranti sono destinati ad entrare nella memoria collettiva: perché rappresentano un movimento gastronomico come El Bulli di Adrià o Il Trigabolo di Argenta. Oppure perché raccontano la memoria di una comunità sino a diventare identitari come Mimì alla Ferrovia.
Il primo processo è legato alla creatività di chi ci lavora, il secondo è più lento, perché ha bisogno di almeno un passaggio generazionale per non essere fissato nel tempo trascorso invece di continuare a raccontare il presente pur avendo un grande passato.
Certo, le cose cambiano e bisogna adeguarsi, il famoso peperone imbottito che prima veniva servito intero oggi è un amouse bouche al centro del piatto, ma il sapore e il sapere restano inalterati e continuano a piacere. Ecco come si diventa classici senza invecchiare.
Nel settembre 1943 Emilio Giugliano, detto Mimì, rileva il ristorante La nuova Grecia, nei pressi della stazione, e lo ribattezza Mimì alla Ferrovia. Fin dal primo giorno, affiancato dalla moglie Ida, si dà due obiettivi: «offrire a chiunque entri i sapori migliori che si possano mettere in un piatto e l’accoglienza più calda che si possa lasciare nell’animo». Quei sapori e quell’accoglienza inconfondibili che da oltre settant’anni si ritrovano entrando nel locale di via Alfonso d’Aragona e che attirano, oggi come ieri, la clientela più varia: il verace popolo partenopeo come tanti protagonisti della cultura, della politica, dello spettacolo nazionali e internazionali. A raccontare la lunga vicenda di Mimì alla Ferrovia in questo libro sono i due nipoti del fondatore, Ida e Salvatore Giugliano.
La storia del ristorante Mimì alla Ferrovia a Napoli
Ci sono locali dove ti sembra di stare a casa. Familiari come un amico di liceo che rivedi dopo anni e inizi a parlare con lui come se ti fossi lasciato ieri sera dopo l’ultima sigaretta condivisa. Mimì alla Ferrovia per me è questo, ma in realtà è molto di più, perché qui si è fatta la storia della gastronomia napoletana moderna, ossia la fusione tra piatti poveri (minestra maritata) e aristocratici (sartù).
L’avventura umana di Michele&Michele, la generazione di mezzo che sta per lasciare il testimone alla terza, Ida e Salvatore appunto, è semplicemente straordinaria: possono raccontare l’Italia camminando fra i tavoli, ma essere anche testimoni del periodo forse più difficile attraversato da Napoli, dalle rovine del Dopoguerra nell’anno in cui nacque il locale, al dramma del colera, per non parlare del terremoto del 1980 e dei difficili anni della ricostruzione in cui legalità e illegalità hanno giocato una partita mortale.
Ma loro sono sempre stati lì, la capacità imprenditoriale di far quadrare i conti e l’abilità istintiva da vecchi osti di conoscere pregi, difetti e voglie di ogni cliente, ricco o povero, famoso o persona comune, che ancora oggi si vedono portare a tavola quello che desiderano senza averlo neanche ordinato.
Questo libro è il racconto della loro avventura che hanno affrontato con semplicità riuscendo in una cosa poco comune per un ristorante: essere al tempo stesso frequentato dal pubblico locale e diventare una meta obbligatoria per chiunque viene da fuori. Ma è anche la lettura di Napoli che cambia, dell’Italia che cambia.
Come si riesce a realizzare questo, rarissimo ormai, obiettivo? La ricetta è semplice ma al tempo stesso complessa: si tratta di pescare nella immensa tradizione gastronomica napoletana facendola dialogare con le esigenze moderne, i gusti e i tempi che cambiano, a cominciare dal fatto che oggi quasi nessuno consuma un pasto completo, neanche a cena. Però anche se il piatto diventa uno solo, c’è una verità: che è quella della tradizione maturata nel corso dei secoli e quella dei prodotti unici che solo i grandi ristoratori sanno reperire. Un tema, quello del prodotto, che sta tornando di prepotenza nell’alta ristorazione dove un friariello vesuviano coltivato senza chimica vale ben più di un caviale o di un foie gras, è il nuovo lusso perché è compatibile con l’ambiente e fa bene alla salute. Ma tutto questo nelle sale di Mimì alla Ferrovia non è storytelling commerciale, bensì realtà quotidiana da sempre. Verità appunto.
Così le mode vanno e vengono, ma lo stile resta. Attenzione, non parliamo di passatismo, ma di capacità di essere sempre se stessi attraverso l’aggiornamento, proprio quello che sta facendo la nuova generazione, Salvatore e Ida, in un periodo di grande trasformazione.
Ecco perché, come si dice, “L’Italia passa da Mimì”. Ed è la verità perché da Totò cliente abituale quando si esibiva nel vicino teatro Orfeo, al presidente Ciampi, da Schumacher ad Agnelli, tutti, insomma, ma proprio tutti, hanno i due cugini Giugliano come punto di riferimento quando vengono in città e sicuramente non si può dire di essere stati a Napoli senza essersi seduti almeno una volta qui.
Ogni centimetro quadrato delle pareti è occupato da una foto ricordo. Una clientela varia, turisti, visitatori, vip e soprattutto gli affezionati clienti di città costituiscono il variegato mondo di Mimì, come era chiamato Emilio Giugliano, fondatore con la moglie Ida.
Dunque un ristorante identitario, in cui è facile per ciascuno riconoscersi e ricostruire il proprio ricordo di essere stato qui, in questi tavoli, anche per una semplice ma buonissima pasta, patate e provola. La cui ricetta trovate nella seconda parte del libro insieme a tante altre della tradizione, quella tradizione che ha fatto di questo locale un ristorante iconico.
La Cucina di Mimì
pp.190 15 euro
Mondadori
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