Gabriella Gentile oggi è sola nella cucina a preparare la pizza rustica di cipolle. Cucina e ricorda, ricorda e cucina. Piano piano nella sua testa entra il vociare dei giorni di festa nella sua casa di Bisaccia e ritorna ragazza, quando il Giovedì Santo si esibiva il nuovo vestito, leggero per sfidare il freddo ma troppo bello perché appena cucito per rinunciare ad esibirlo. Piano piano ricorda la preparazione del pane, quasi un rito religioso, e della pasta: le lagane, i cavatelli, i marcannali, i ravioli e le nocchette che si facevano con gli avanzi dei ravioli. La cucina è memoria come ha insegnato a tutti Proust attraverso la madaleine. Ma la memoria è di due tipi: individuale e collettiva e questo libro (Ricordi di Gusto, Delta 3 Edizioni, 224 pp. Foto di Alfio Giannotti) un tempo sarebbe stato un diario personale, oggi è un reperto antropologico di una civiltà rurale e pastorale in via di estinzione, spazzata via dal cibo imbustato ed etichettato, dalle normative europee fatte votare dalle multinazionali del cibo, dalla incapacità di molte piccole comunità di aprirsi al mondo riuscendo a mantenere le proprie radici.
Il libro che non ti aspetti, un libro da conservare e leggere, complesso nella sua semplicità. A partire dalla suddivisione stessa dell’indice che è tutto un programma. Si parte dalle basi, il pane e la pasta perché a Bisaccia, il paese dove è nata la professoressa Gabriella Gentile, era ed è ancora terra di latifondo e di coltivazione del grano e dei cereali.
Poi inizia un percorso che tanti giovani cuochi ormai ignorano sonoramente: la stagionalità. Le ricette stagionali erano piatti che iniziavano e finivano, non erano disponibili sempre e dovunque e proprio questa attesa li rendeva ancora più magici. Dalle zeppole di san Giuseppe al soffritto di frattaglie di agnello della Primavera, al baccalà estivo con le preparazioni delle marmellate, la ministra di talli e zucchine. E poi, ancora, i peperoni sotto aceto e lampascioni fritti autunnali, il soffritto e il fegato di maiale, baccalà e patate in inverno sino all’apoteosi natalizia che per fortuna ancora sopravvive nella maggioranza delle case del sud: minestra maritata, cappone ripieno, peperoni imbottiti, pizzelle di baccalà, zeppole, canestrelle, calzoncelli, croccante struffoli.
In tutto 70 ricette in cui è riassunta la cultura di una comunità, il sapere della civiltà rurale e pastorale dell’Alta irpinia, un territorio ancora oggi onirico e incantato da cui l’uomo è fuggito in cerca dell’infelicità.
Passano in questo libro principi antichi che sono moderni, modernissimi anche nell’alta gastronomia: quello del recupero che passa attraverso la lotta agli sprechi alimentari e quello, appunto, della stagionalità che vuol dire al tempo stesso gusto e risparmio.
Una civiltà gastronomica silente e operosa che ha in se il germe della risposta su come si potrà affrontare un futuro sempre più popoloso e con crescenti problemi di spazio e di acqua. Ecco perché questo non è un banale libro di ricette come tanti altri, come siamo lontani da quelli preparati dagli chef per esibire il proprio ego oppure dalle raccolte senza senso di preparazioni che esaltano prodotti industriali. Un piccolo tesoretto, insomma, la cui lettura veramente è consigliata a tutti, ancora fuori da ogni noiosa logica commerciale, ricca e densa di scrittura e di amore per la cucina e i propri territori. Quasi il desiderio di trasmettere alla nuove generazioni una speranza, un testimone che prima o poi qualcuno sicuramente prenderà perché questa ricchezza e questa sapienza non possono sparire.
Se ciò accadrà mai vuol dire che saremo ancora più poveri di quella civiltà povera che sapeva esprimere gioia e felicità.
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