di Carmen Autuori
Panna, panna ovunque, dall’antipasto al dolce. Negli anni Ottanta e anche per buona parte del decennio successivo questo derivato del latte assume in cucina gli stessi connotati di status symbol della Fiat 500 in garage o della televisione in salotto (rigorosamente abbellita in cima dal centrino all’uncinetto) negli anni del boom economico.
Gli anni Ottanta e Novanta sono stati, gastronomicamente parlando, l’immagine di una società che, superati i grandi scontri ideologici che caratterizzarono il decennio precedente, fa della ricerca del piacere a tavola, talvolta eccessivo, il suo scopo primario, complice una congiuntura economica particolarmente favorevole, a riprova che il mondo del food, così come la moda, la musica, il cinema, la letteratura, è lo specchio di una precisa epoca storica.
Come dimenticare gli iconici tortellini panna, prosciutto e piselli. L’idea di utilizzarla in questo piatto che ancora oggi fa rabbrividire i puristi del burro e salvia e gli amanti dei tortellini in brodo, pare sia stata, nel Dopoguerra, di Cesarina Masi, cuoca dell’omonimo ristorante bolognese. Ma lei usava panna scremata dal latte appena munto, non certo la panna industriale ricca di grassi idrogenati che si trova sugli scaffali di ogni supermercato.
Il ventennio 1980-1990 è quello dei gusti barocchi e voluttuosi e pure un po’ esterofili che, promossi da ricettari che scopiazzavano la cucina d’Oltralpe, avevano conquistato non solo il mondo della ristorazione, ma anche la cucina di casa.
Pennette alla vodka (ca va sans dire annegate in un mare di panna), il risotto al caviale, che poi sarebbe più corretto chiamarlo riso con le uova di lombo o quello allo champagne dove il prezioso vino era presente solo nel nome, erano i primi piatti più gettonati.
Passando poi ai secondi come non ricordare il famoso roast-beef con patate e piselli, annegato da una collosa salsa che, pur volendo ricordare il prezioso “fondo bruno” della haute cuisine, altro non era che brodo di dado addensato con un semplice cucchiaio di farina. Era il secondo tipico della domenica italiana di una certa piccola borghesia che a tutti i costi voleva dimenticare le proprie origini contadine. Sparito, o quasi dai ristoranti, il roast-beef fa ancora bella mostra di sé negli autogrill delle nostre autostrade. O, ancora, il filetto al pepe verde o il cordon blue, quasi sempre contornati da qualche foglia di rucola fresca considerata la decorazione di punta del momento.
E se lo status- symbol della tavola piccolo borghese era il cocktail di gamberi dove i crostacei lessi erano sommersi da un mare di salsa rosa, mix di maionese e ketchup, per l’alta borghesia era il monumentale aspic, preparazione a base di carne o pesce e verdure tenuta insieme da un composto gelatinoso.
La stessa gelatina andava a ricoprire tartine, i famosi canapè oppure i patè di fois -gras. Erano questi gli antipasti di rito dei pranzi o delle cene delle feste, soprattutto di Capodanno. Insomma, se oggi non ci si può definire foodie se non si ha in casa il sale dell’Himalaya, in quegli anni senza una scorta di gelatina si veniva considerati dei perdenti.
E poi le cascate di prosciutto, una sorta di monumento al cattivo gusto sia estetico che del sapore. Immaginate le fette di prosciutto tenute all’aria per svariate ore che diventano una sorta di cartone commestibile. resiste sulla tavola di qualche banchetto particolarmente kitsch in occasione di matrimoni, battesimi e dintorni.
Anche i dolci aderivano alla stessa filosofia del “too-much”. Profiteroles, zuppe inglesi racchiuse da spessi strati di meringa, la torta mimosa generosamente farcita da strati di panna (ovviamente) e le crepe, meglio se flambè, considerate più chic. Chissà quanti banchetti hanno rischiato di finire in tragedia a causa di qualche cameriere maldestro…
Il ritorno ai prodotti naturali e a una rinascita complessiva della cucina così come la intendiamo oggi è stata una strada lunga e difficile. Queste mode, in buona parte superate, hanno comunque lasciato tracce nelle abitudini familiari.
E nella ristorazione? Vediamo qual è il giudizio di alcuni grandi chef protagonisti dell’attuale storia gastronomica.
Moreno Cedroni, chef bistellato della Madonnina del Pescatore di Senigallia, ricorda con affetto i tagliolini fumè al salmone, mentre Alessandro Pipero del Pipero di Roma, li salverebbe tutti a patto che siano cucinati bene. Gennaro Esposito de La Torre del Saracino a Vico Equense rimpiange i sontuosi carrelli di dolci di quegli anni che vorrebbe riproporre in una versione 2.0.
Non è dello stesso avviso Alfonso Iaccarino del Don Alfonso 1890 a Sant’Agata dei due Golfi che considera i piatti del Ventennio totalmente fuori luogo e slegati dal territorio, ma questo c’era da aspettarselo considerando la sua rivoluzione gastronomica che vede protagonista del piatto innanzitutto l’orto.
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