di Lello Tornatore
Non credo alla casualità degli eventi. Figuriamoci poi quando parliamo di scelte rurali e particolarmente del mondo rurale irpino. La vita in campagna è stata sempre molto dura, anche oggi, ma ancora di più nei secoli scorsi, quando non si avevano a disposizione i mezzi, la tecnologia e le conoscenze odierne.
Quindi ogni decisione, ogni scelta produttiva agricola doveva avere una forte motivazione di convenienza, era in gioco la sopravvivenza, mica il livello degli utili…. In un’epoca in cui , parliamo degli anni tra le due grandi guerre e di quelli immediamente successivi fino agli anni ’70, nel poverissimo mondo contadino dell’Irpinia vigeva il principio della produttività a prescindere. Ed è ispirata proprio a questo principio la scelta di coltivare la coda di volpe. I grappoli lunghissimi e compatti del vitigno assicuravano una produzione per ettaro molto più alta del fiano e del greco. Proprio per questo che fino agli anni del boom economico, il vitigno a bacca bianca più diffuso in Irpinia era il coda di volpe.
Successivamente, la lungimiranza di Antonio Mastroberardino, che intanto si confrontava con le produzioni vitivinicole di tutto il mondo, francesi in testa, ci portò all’intuizione che vinificare il fiano ed il greco non più come vini spumanti dolci da stappare nelle “occasioni terribili” familiari, ma come vini fermi e secchi da abbinare ai pasti, fosse più semplice e desse un prodotto organoletticamente superiore alla coda di volpe. Ed è così che ormai fiano e greco dominano la scena bianchista regionale e nazionale.
Il terzo bianco d’Irpinia e di qualche areale del beneventano, da quando si è capito che è utile anticipare la vendemmia di qualche settimana per preservarne le acidità, è però in grande spolvero. Infatti la caratteristica della coda è che geneticamente in maturazione fa registrare acidità più basse rispetto al fiano ma soprattutto al greco, tant’è che si usava e in qualche caso si usa ancora, per abbassarne l’acidità quando è necessario. Ma allora dove stanno questi pregi ultimamente riscoperti di questo vitigno? Premesso che va vendemmiato , come già detto, qualche settimana prima della maturazione, la permanenza sulle fecce fini e un ulteriore affinamento lungo in bottiglia conferiscono notevoli complessità, corpo e struttura, inimmaginabili sino a qualche decennio fa. E ultimamente ne abbiamo avuto la riprova con alcune bellissime bottiglie, ad esempio quelle di Masseria Murata, uno dei primi produttori a riscoprire questo vitigno, quelle di Michele Perillo che gioca tutto sul lungo affinamento (l’ultima in commercio è la 2012), quelle di Raffaele Troisi che è stato, contro il volere del padre Antonio, uno dei primi a crederci, e ultimamente quelle di Historia Antiqua e proprio l’altro giorno ne ho apprezzato un’altra: quella di Regina Collis di Paternopoli. In quest’ultimo caso siamo ancora a livello di sperimentazione, è in programma l’imbottigliamento della vendemmia 2015. Come si vede dalla foto, non c’è ancora l’etichetta. Si tratta di un uvaggio coda di volpe (90%) e greco (10%). Colpisce il colore marcato che potrebbe far pensare ad un inizio di ossidazione, ma non è così. Il naso ci regala piacevoli sensazioni di frutta, pesca gialla e mela golden, in successione agrumi e nespola. Il palato, come avviene di solito per questi vini, supera l’olfatto. Grande pienezza di bocca, anche leggermente tannica, sostenuta da un’adeguata freschezza.
Confidiamo in grandissimi risultati ad affinamento lungo in bottiglia, avvenuto. L’abbiamo degustata a casa di Mariaregina Tecce, che insieme ai fratelli. Conduce i circa cinque ettari di vigna collocati tra Paternopoli , Castelfranci e Torella dei Lombardi. La piccola azienda produce prevalentemente aglianico e Taurasi. La prima vinificazione è del 2013, quindi fresca fresca. In bocca al lupo Mariaregina!
Regina Collis di Mariaregina Tecce
C/da Cerreto, 26 Paternopoli (Av) tel. 0827 71236
www.reginacollis.it
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