La carne rossa è «probabilmente cancerogena» mentre quella cotta alla brace lo è «sicuramente». Non è il claim di un sito vegano, ma la conclusione a cui è giunta l’Organizzazione Mondiale della Sanità dopo aver passato al setaccio oltre 800 studi scientifici di settore. Una nuova bomba mediatica al settore dopo quella della crisi di Mucca Pazza che fa esultare quanti da anni, sempre più numerosi, attaccano questo alimento.
A ben vedere, i pregiudizi contro la carne sono così radicati da entrare nei precetti delle due principali religioni del Mediterraneo: l’Islam che elimina totalmente il maiale dalla dieta e il Cristianesimo che raccomanda nei giorni di «magro» di non mangiare cibo di origine animale. E, si sa, le proibizioni alimentari religiose hanno sempre radici di natura salutistica e medica.
Oggi non si è mai mangiata tanta carne: dal Dopoguerra ai giorni nostri si è passati dai 7 ai 35 chili a testa, da cibo dei ricchi si è trasformato in junk food a basso costo facilmente reperibile ovunque ed è stato forse la più significativa influenza della cultura anglosassone nella nostra dieta quotidiana insieme alla Coca Cola. E pensare che sino agli anni ’60 in Italia si usava dire «a casa mia non manca mai la carne» per sottolineare una condizione di raggiunto benessere. Ai bambini si dava una spremuta di succo di bistecca per farli crescere più forti, questo almeno si pensava, ed era questo l’alimento della festa la domenica anche per i poveri, come ben sappiamo a Napoli visto che i due piatti bandiera della gastronomia partenopea sono la genovese e il ragù, ottenuti da pezzi poco pregiati cotti fino allo stremo per goderne il sapore. Erano gli anni della carne in scatola, «Simmentalmente buona» o «carne sovrana, parola di Gringo, carne Montana».
Dopo tremila anni di stenti gli italiani realizzavano improvvisamente così il loro sogno: mangiare sempre e comunque carne, anche durante la Quaresima, anche di venerdì. Finiva la antica separazione tra la dieta di origine latina, cereali, vino e olio, e quella portata dai popoli del Nord, carne e birra. Una separazione poi stratificata anche socialmente, con i banchetti aristocratici con selvaggina e bovini, mentre i poveri sopravvivevano con la farina di castagne, la frutta e un po’ di erbe. Oggi, a ben vedere, è ancora esattamente così che mangiano ricchi e poveri, ma al contrario. E la gotta è diventata una patologia democratica.
La verità è che la diffusione della carne è dovuta al cambio delle abitudini familiari e al progressivo abbassamento del costo di produzione, un po’ come è avvenuto con i cellulari, divenuti alla portata di tutti dopo essere stati status symbol. Non solo, l’apertura di pub e paninoteche aumenta il consumo tra i giovani favorendo l’approccio alla bassa qualità come elemento di abitudine quotidiana.
Sappiamo però che quando si gioca sui costi si penalizza la qualità e si entra nella zona grigia delle truffe e dei trucchi per produrre di più a prezzi più bassi. Un fenomeno mondiale che ha avuto il suo culmine con «Mucca Pazza» dopo il quale la carne è diventato uno degli alimenti più controllati e tracciati, almeno in Italia.
L’altolà dell’Oms arriva dunque in un quadro in cui è venuto meno, nell’alimentazione, il principio della rotazione quotidiana e stagionale dei cibi perché le società occidentali sono ormai abituate concettualmente ad avere tutto e sempre. Dunque, a ben vedere, forse non è la carne rossa in se ad essere pericolosa se consumata una volta alla settimana, ma la totale mancanza di approccio etico al cibo, alla mancanza di «rispetto», tipico della civiltà rurale e della generazione che ha vissuto la guerra, che ormai dilaga. Non si ha più vergogna di lasciare qualcosa nel piatto, di buttare il pane, di consumare frutti di mare e pesci proibiti o di mangiare carne di animali allevati a diecimila chilometri.
Ecco, di fronte a questa assenza di etica non abbiamo più gli anticorpi necessari per praticare l’essenza di ogni dieta, cioè l’equilibrio.
articolo pubblicato sul Mattino di domenica 8 novembre
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