di Raffaele Mosca
Alle 9 di mattina del secondo giorno in Borgogna incontriamo, in quel di Chorey les Beaune, pochi chilometri a nord della città, il personaggio più bizzarro di questo tour. Mai avremmo pensato di ritrovarmi in Borgogna davanti a un cowboy texano con parlantina da attore, un John Wayne in versione vigneron. Jean Luc Maldant è tutto il contrario del produttore borgognone schivo, che s’interessa solamente della propria vigna. È loquace, esuberante, eclettico: oltre al vino, produce anche aceto di vino aromatizzato con spezie ed erbe del suo orto. La sua cantina è la più glamour tra quelle che visitiamo: sala di degustazione che assomiglia a un wine bar à la page; cantina pulitissima, per niente cavernosa e decisamente tecnologica per gli standard borgognoni. Tutti i suoi vigneti si trovano tra la periferia di nord di Beaune e la montagna di Corton; la produzione è piuttosto consistente – oltre 100.000 bottiglie – e Jean Luc ci confessa di ricorrere alla vendemmia meccanica per le vigne più piatte.
La sessione mattutina di degustazione comincia con un tasting di aceti: strepitoso quello allo zenzero che rende tutto più giapponese; gagliarda anche la versione al rosmarino. Poi si prosegue con i vini, non prima di essersi sciacquati la bocca per evitare sovrapposizioni. Da un tipo come Jean Luc non puoi aspettarti nulla di “frou frou”, di lieve e arioso, e in effetti, il terroir di Chorey Les Beaune e dintorni è molto in linea con il suo temperamento: sono zone che danno vini robusti, profondi, scuri e “mascolini” (se si può ancora dire senza essere flagellati). Nella batteria c’è anche un Corton: unico Grand Cru per il Pinot Noir nella Cote de Beaune. Vigneto tra i più fotografati di tutta la Borgogna per la forma quasi geometrica della collina sormontata dal bosco, il solo di tutta la Cote d’Or con esposizione a Sud oltre che a Sud-est, Corton è noto anche per la variabilità dei prezzi e della qualità dei vini che ne vengono ricavati. Si spazia, infatti, da versioni abbastanza economiche – e francamente poco in linea con la classificazione – ad altre che spuntano cifre astronomiche (prima tra tutte quella del Domaine de la Romanee Conti). Il Corton di Maldant-Pauvelot sta nel mezzo e, nel felice (ma sottovaluto) millesimo 2009, tira fuori un profluvio boschivo, silvano, di erbe disidratate e radici, gelatina di more, cuoio, pot-pourri di fiori rossi, legno arso. E’ ancora un giovincello: austero e sontuoso, tannico e fuligginoso, non privo di una certa florealità di fondo che lo rende un pelino più elegante rispetto a tanti altri vini della montagna assaggiati in precedenza. Sulla stessa linea, ma un po’ più semplice, il Sauvigny Les Beaune 1er Cru Les Gravains e l’Aloxe Corton 2017: il primo definito da una parte fruttata appena più dolce al naso, poi tannico e appena ruspante in bocca; il secondo terroso e fumè, vellutato al palato con una chiusura al sapore di crema di caffè. Sul fronte dei bianchi, ci convince il Savigny Les Beaune 1er Cru Aux Gravains 2017: fumoso e pietroso in apertura, poi piccante di pepe bianco; dritto e sferzante al palato con buon polpa a supporto. Nella media lo Chorey Les Beaune Blanc e il Bourgogne Aligotè, penalizzati da una maturità di frutto un pelino eccessiva.
L’ ultima visita del tour in Cote de Beaune – poi passeremo all’altra sponda – la facciamo in un angolo remoto, dove si avventurano in pochi. Un vero peccato, perché il villaggio di Meloisey, comune dell’Haute Cote de Beaune, la parte alta della fascia che si trova aldilà della lingua dei Cru, sembra uscito da un film di Tim Burton. Man mano che ci si allontana da Beaune e Corton, il bosco prende il sopravvento sui vigneti, i crinali si fanno più ripidi, ruscelli e radure intramezzano le parcelle che spuntano qua e là. Meloisey è immersa in questo scenario bucolico: consiste in un un agglomerato di casupole di pietra un po’ dimesse nel mezzo di una vallata colorata di giallo e di rosso nel mese di Ottobre. Su di una delle quattro vie in croce del paese ha sede l’azienda della produttrice che ci ha spinto a venire fin qui: Agnes Paquet, forgiatrice di vini soavi e veraci allo stesso tempo, importati in Italia da Giancarlo Marino con la sua DeGustate.
Tra i produttori che incontriamo nel nostro viaggio, Agnes è l’unica che si è fatta da sola: i suoi genitori svolgevano altre professioni e vendevano le uve degli appezzamenti di proprietà ai negociant di Beaune. Lei, invece, ha studiato al Lycee Viticole e ha fatto un apprendistato in California prima fondare nel 2000, a soli 21 anni, la sua piccola azienda che tutt’oggi produce non più di 10.000 bottiglie da vigne condotte in regime biologico.
La differenza con Jean Luc si nota subito: Agnes è timida,riservata, di poche parole. Stappa le bottiglie e dà giusto un paio d’ informazioni sulla sua filosofia, che è sintetizzabile in: uve diraspate per il 70% circa e il resto grappolo intero, no lieviti aggiunti, filtrazioni leggere, affinamento in botte da 350 o 500 litri per evitare che il legno marchi troppo . I suoi vini, in compenso, sono molto eloquenti: tra i bianchi spicca l’Auxey Duresses Patience n°12 2019, da vecchie vigne nella parte del comune che va verso Meursault. Sa di noce moscata, bergamotto, pesca nettarina, cannella e macaron alla vaniglia; il connubio di tensione acido-sapida del sorso e cremosità è impressionante, francamente non so quanti Meursault village reggerebbero il confronto. Anche l’Haute Cote de Beaune Rouge ha poco da invidiare ai migliori village delle zone classiche: puro e succoso di ribes rosso e fragola, speziato e floreale nei rimandi che allungano la progressione d’irrestibile suadenza. Più cupo, ma sempre tonico e di somma piacevolezza l’Auxey Duresses Rouge 2019: sanguigno e ferroso, tannico quanto basta. Valido anche Auxey Duress Blanc 2019: ginestra, zagara, cremosità e buon timbro salino di fondo che stempera la morbidezze. L’unico vino che non ci ha convinto è Ali Bois Bois e les quarant beuvers, un Pet-Nat da Aligotè che parte bene, con un naso esotico allettante, ma poi chiude impreciso, marcato da un cenno esuberante di acidità volatile e da un ricordo di crosta di pane brucciacchiata che lo rende molto rustico.
Si è fatta ora di pranzo e chiediamo ad Agnes un bistrot serio dove fermarci prima di spostarci in Cote de Nuits. Ce ne consiglia uno nel bel mezzo delle vigne di Saint Romain: Bistrot des Falaises, uno di quei posti dove, da turista, non andresti mai, perché sono fuori da tutti gli itinerari più battuti. E’ il luogo giusto per pranzo veloce ma non banale: la cucina è sostanziosa, il servizio svelto, la lista dei vini non enciclopedica, ma ben strutturata. Peschiamo l’ultimo gioiellino di questa prima parte del tour: Saint Romain 2009 di Pierre Taupenot, un estratto di bosco e di radici, sottile al palato, ma non esile, con acidità pulsante ed infiltrante che ravviva l’impianto aromatico autunnale. E’ l’ennesima riprova del fatto che, deviando dai tracciati più battuti, si rischia sempre qualcosina, ma, il più delle volte, si fanno scoperte emozionanti senza svuotarsi il portafoglio!
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