di Raffaele Mosca
Potrei parlarvi di vini e produttori inarrivabili, monaci che hanno tracciato confini di vigne leggendarie e monarchi che se ne sono impossessati. Potrei cimentarmi nell’ennesima disamina storica e molto teorica sulla Borgogna che tutti adulano e che nessuno tocca con mano, ma finirei per essere insincero ed infinitamente noioso.
La verità è che non c’è bisogno di divorare tomi sui Grand Cru o andare in pellegrinaggio da uno dei pochi produttori di Vosne Romanee, Chambolle Musigny o Meursault che accettano visitatori per innamorarsi della Borgogna. La costellazione di denominazioni minori che offrono chicche a prezzi umani è cresciuta a dismisura nell’ultimo trentennio. Oggi più che mai è possibile trovare tra Saint Romain, Saint Aubin, Auxey Duresses, Ladoix, Marsannay, Fixin, Volnay, Pommard e la Haute Cote vini che hanno caratteristiche simili a quelli delle appellation più celebrate, ma non costano un occhio della testa.
Moissenet-Bonnard e Lejeune: la riscoperta di Pommard
Il primo viaggio era cominciato dalla mecca del vino mondiale: Vosne Romaneè. Ero andato subito ad inginocchiarmi ai piedi della croce della Romanee-Conti, per poi rintanarmi nella saletta degustazione di un famoso Domaine lì vicino. Questa volta, invece, la prima tappa la facciamo a Pommard, terra di vini storicamente considerati “minori”: possenti, terragni, meno sexy e più cervellotici dei cugini della Cote de Nuits, ma mai troppo esosi e capaci di regalare soddisfazioni inaspettate.
Pommard sta lentamente colmando il gap che intercorre tra la sua produzione e quella dei grandi comuni del Pinot Noir. Il passaggio di alcuni premier Cru del village alla fascia dei Grand Cru non è più una remota ipotesi, ma una realtà in via di concretizzazione, e, in effetti, quel che troviamo il più delle volte nel calice sembra confermare la necessità di una riclassificazione, soprattutto quando il vigneto in questione è “Les Epenots”, la parcella più nota e blasonata di tutto il paese, facile da individuare grazie al “Clos des Epeneaux”, Cru nel Cru che appare con il suo muro di cinta sul ciglio della strada che conduce al paese.
La prima azienda che visitiamo in questo tour è proprio tra quelle che vinificano Les Epenots, ed è gestita da una famiglia di vigneron duri e puri, che badano solo alla sostanza e se ne fregano dello storytelling. Avevo scoperto i vini di Moissenet-Bonnard da Taverna Volpetti, nel corso del mio penultimo pranzo fuori prima dell’ultimo lockdown. Mi erano sembrati molto lontani dallo stereotipo del Pommard selvatico e rusticotto, quasi più vicini alla Cote de Nuits da un punto di vista stilistico. E, infatti, vengo a sapere da Emanuelle-Sophie, graziosissima figlia del titolare Jean Louis, che i Moissenet sono i cugini di un’altra grande famiglia borgognona: i Lamarche, oggi capitanati dall’ esuberante Nicole. Non a caso, il loro stile è tutto giocato sulla finezza, con un uso molto moderato del legno nuovo – massimo 30% nei premier Cru – e una ricerca dell’estrazione molto leggera (il termine “infusione” è oramai abusato in Borgogna). Gli appezzamenti familiari, condotti seguendo il regime dettato dalla certificazione Haut Valeur Environmentelle (una sorta di equivalente della lotta integrata italiana), sono molto frammentari e si distribuiscono principalmente tra Auxey Duresses, la parte sud del comune di Beaune, una piccola parcella a Nuits San Georges e ben sei appezzamenti nell’areale di Pommard: Les Epenots 1er Cru, Les Charmots 1er Cru, Les Pezerolles 1er Cru e i lieux dits Tavannes, Les Cras, Les Petit Noizons.
Va da sé che l’ occasione è ghiotta per esplorare Pommard in lungo e largo, farsi un’idea di caratteristiche e gerarchie degli appezzamenti. Ma ancor prima dei rossi, assaggiamo i bianchi, contravvenendo al solito ordine borgognone. La triade dei bianchi di Moissenet Bonnard è composta da un raro Beaune Blanc – solo il 5% dei vigneti del village è piantato a Chardonnay – da un Puligny Montrachet 1er Cru e da un Meursault village. Il più convincente è proprio il Puligny 2017: tropicale, burroso e allo stesso tempo nervoso, con finale dai rimandi terragni che chiama un risotto ai porcini. Buono anche il Meursault, che abbina la ciccia tipica di questo village a una spinta acida di notevole precisione, mentre il Beaune Blanc è appena vegetale e un po’ frenato nell’allungo.
Tutt’altra storia i rossi: si parte dal Beaune Monteè Rouge 2017, rustico e massiccio, privo dell’ariosità dei migliori Pinot della Cote d’Or, ma discretamente gastronomico. Segue un Nuits San Georges 2016 appena reticente, tannico e serrato, più lieve nell’allungo che sa d’incenso e mentolo. E poi comincia la sfilza di Pommard, che parte da Les Cras 2018: scuro di more e sottobosco, robusto al palato, ma con ritorno floreale di fondo che lo rende più raffinato. Molto diversi gli altri due lieux-dits: Les Tavannes spinge sulla spezia e sulle erbe aromatiche, con un sorso incentrato sul frutto, morbido, compassato, grazioso, ma appena carente di profondità; Les Petit Noizons 2018, invece, proviene da una vigna di 90 anni, e ha precisione, delicatezza di frutto e cotè speziato che lo avvicinano molto ai Premier Cru. Les Charmots 1er Cru 2017 è paradossalmente meno sfaccettato di Petit Noizons, delicato nella parte tannica, soave e garbato, con finale di ribes e rosa canina. Pezerolles 1er Cru 2017 è agli antipodi: vira su tonalità scure, di pelliccia e di caffè, di ruggine e di tabacco, salvo poi rivelare una dinamica gustativa slanciata e accattivante, con tannino di media presa e vena floreale che sigla il finale irresistibilmente succoso.
Chiudiamo con una mini-verticale del vino punta: il 1er Cru Epenots, da parcella storica di 0,90 ha piantata nel 1933. Sul 2020 da botte rimandiamo il giudizio, ma la purezza di frutto è già strepitosa. Il 2019 non è troppo diverso: giovincello e irruente, tonico d’agrume e di spezie piccanti che solleticano la lingua. Il 2018 ha un naso clamoroso: ebanisteria e souk arabo, tè nero, floreale a go go; il tannino è quello dei grandi Pommard, ma la purezza di frutto, l’equilibrio e la tridimensionalità del finale gli permettono di rivaleggiare con la Cote de Nuits. Un giro di 2017 – appena più arcigna della ‘18, ma dotata di grande spint minerale – e si chiude in bellezza con una 2014 che spinge al naso sulle note boschive ed ematiche, ma ha mantenuto frutto, souplesse e tensione da fuoriclasse.
Terminata la visita da Moissenet Bonnard, ci dirigiamo verso La Place de l’Eglise, baricentro di Pommard. Qui, in un angolo particolarmente pittoresco del paese, ha sede il Domaine Lejeune, fondato a fine 700’ e attualmente guidato da Aubert Lefas, altro vigneron di sostanza più che di forma, genero di un celebre professore del Lycee Viticole de Beaune. Aubert è stato folgorato sulla via della biodinamica circa un decennio fa, ma non è questa la prerogativa più importante del suo lavoro. Ciò che lo rende un’icona nella nicchia degli intenditori è la totale rinuncia alla diraspatura delle uve. “ Qui al Domaine Lejeune facciamo solo fermentazioni a grappolo intero – ci spiega – vendemmiamo qualche giorno più tardi dei nostri vicini per avere un raspo perfettamente maturo, pigiamo e facciamo sì che cominci una macerazione semi-carbonica nelle vasche d’acciaio”. Questo processo ha come risultato una freschezza accattivante – vegetale, ma non verde – e una certa “sucrositè” , ovvero una meravigliosa succosità di frutto, quasi una sensazione di dolcezza in assenza di zuccheri, che rende i vini rossi particolarmente fini per gli standard della Cote de Beaune (e proprio per questo assolutamente irresistibili!).
Anche in questo caso la degustazione – che ha luogo in una barricaia insolitamente pulita e luminosa – parte dai bianchi. Il Chassagne Montrachet 1er Cru Abbaye de Morgeot 2017 di Lejeune è il bianco della giornata: cremoso, accomodante e allo stesso tempo reattivo, senza rovere in eccesso e con nota marina che prolunga l’epilogo. Appena più facile e meno grintoso il Meursault 2018, mentre il Bourgogne Cote de Beaune è semplicemente un buon vino base con prezzo più che onesto. Sul fronte dei rossi, il vino d’entrata è un leggiadro, semplicissimo, ma sfizioso Bourgogne Cote d’Or. Il salto da questo al 1er cru Les Poutures 2018 è spiazzante, ma il fil rouge che sta nella succosità di frutto che, nel 1er Cru, va a braccetto con un tratto ematico, ferruginoso che dà la terza dimensione. Sulla stessa linea Les Argilliers 1er Cru 2018: sempre misurato e garbato nel frutto, ma leggermente più semplice nella dinamica di bocca. Si chiude in bellezza con il Pommard 1er Cru Grand Epenots 2018: cannella e tè nero, ribes e gelatina di anguria, concia e ruggine a delineare un profilo d’immensa souplesse. E’ sicuramente profondo, ma così scorrevole e aggraziato che lo berremmo a catinelle.
Salutato Aubert, c’ camminiamo verso Beaune. Cena da Ma Cuisine, il punto di ritrovo di tutti gli enofili in pellegrinaggio, con uno strepitoso Chambolle Musigny di Ghislaine Barthod – tanto per spezzare la sequenza! – e poi si va a riposare per essere in forma al mattino seguente.
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