Ristorante l’Arca di Alba Adriatica
Via Mazzini 109
Tel.0861 714647
Apeto a pranzo e cena, sabato solo la sera
Chiuso matedì
di Raffaele Mosca
La notizia buona è che, molto probabilmente, l’ Abruzzo avrà una nuova stella: non so se tra due, tre o cinque anni, anche se quella “verde” per la sostenibilità la famiglia Capretta la meriterebbe già per tutto ciò che c’è intorno al progetto.
L’ obiettivo macaron dalla Michelin, però, non è l’unico modo di raccontare un ristorante che è da anni un punto di riferimento nell’ Abruzzo teramano e che ha la sola colpa di non aver fatto abbastanza proselitismo fuori regione. L’ Arca ha precorso molti dei temi al centro del dibattito attuale: merito del titolare, Massimiliano Capretta, persona di rara cultura e sensibilità, appassionato di macrobiotica e ayurveda fin dalla gioventù. “ Faccio cucina vegetale da quando ho aperto nel 98’ – ci spiega nel corso di questo pranzo infrasettimanale – nei primi tempi, quando proponevo un arancino al miglio, qualcuno mi diceva che servivo cibo per cani!”.
Due fasi contraddistinguono la vita di questo ristorante con sede a poche centinaia di metri dal lungomare di Alba Adriatica: la prima sotto forma di osteria “anomala” per l’ Abruzzo, con ampia scelta vegetariana in tempi non sospetti; la seconda, a partire dal 2006, come ristorante gourmet con una prerogativa più unica che rara: la certificazione biologica. Un riconoscimento quasi tassativo per le aziende agricole di qualità, ma che non ha preso altrettanto piede tra i ristoranti: sono solo in otto ad averlo in tutta Italia.
A infondere nuova linfa nel progetto, ci pensano Dalila, sorella minore di Massimiliano, e il suo compagno, sous chef con esperienze pregresse in alcuni indirizzi stellati di Roma. Sono loro i “designer” della carta e di tre percorsi da 5 o 8 portate che spaziano tra mare, terra e orto ( con prezzi che vanno dai 55 ai 90 euro).
Il menù de L’ Arca
L’ esperienza ha inizio con un entreè in quattro tappe che parte da un brodo di funghi e tofu, passa per la scossa sapida delle cozze all’amatriciana (“tributo alle popolazioni terremotate”) e per le tonalità scure e selvatiche del fegato di merluzzo con fico appassito, per concludersi con un goloso tramezzino farcito di suri con salsa bernese e cialda al nero di seppia. Un’apertura originale che precede una sequenza composta da:
-Meditazione, ovvero il primo fuoco d’artificio. L’ ostrica, immersa in una zuppetta con datterino, scalogno, mela verde e acqua di mare, dà vita a un’esplosione sapida travolgente che vira prima sull’acido e poi sull’umami. Un piatto straripante di sapore che, a detta di Massimo, ha ricevuto il plauso di giornalisti e colleghi. Voto: diesci!
– Polpo cotto a bassa temperatura con salsa della sua acqua, mela verde e insalata al pinzimonio: una reinterpretazione centrata di un classico di questa riviera, con il twist acido della mela verde che torna a dare una spinta in più sulla lato della freschezza.
– Una versione sorprendente di baccalà, patate e peperoni, in cui il pesce è racchiuso in un cannolo di patate che, in accoppiata con il sorbetto di peperone, crea un gioco accattivante di temperature e consistenze.
– Un piatto d’impostazione classica come la crema di ceci e castagne con farro, vongole, calamari rosticciati e olio al timo e rosmarino, appena rinfrescante dalle erbe aromatiche, che sono uno dei pallini di Massimiliano: le prende da un’azienda specializzata a Propezzano di Morro d’Oro (Te).
– Gli Spaghetti “omega 3” con aglio nero, olio e peperoncino, clorofilla di prezzemolo e alici: un’esplosione di sapidità un po’ più rustica rispetto a quella dell’ostrica. Qui si può aggiustare il tiro per avere più equilibrio tra gli ingredienti.
– R.amen, ovvero i capellini d’angelo che si facevano per le festività mariane immersi in un brodo speziato insieme ai tre cardini della cucina teramana: screpelle ‘mbusse, pallotte (di interiora ovine) e un’alga a ricordare le mazzarelle. La tradizione qui incontra la passione per il Giappone di Massimiliano, che a Londra ha lavorato con Hiroki Takemura, uno dei maestri della cucina nipponica, nonché primo chef di Nobu.
– Il piccione. Confesso di essere un po’ stufo dei millemila piccioni proposti in ogni dove. Lo avrei saltato se non mi avessero detto che la materia prima proviene da un allevamento certificato a Colonnella (TE), anziché dai soliti fornitori presenti sui cataloghi di distribuzione. Il piatto ne guadagna molto in sapore non manipolato e, per quanto semplice, convince per precisione dell’esecuzione e decisione di non buttar via nulla: a fianco al petto, troviamo ala, brodo, filetto in tartare e una polpetta con le interiora.
.- Dolce non dolce e lingotto: due dessert molto diversi: più fresco e originale il primo a base di melograno, cachi e grano saraceno, molto classico e goloso il secondo. Per la cronaca, Massimiliano ha permesso al team di affinare la tecnica sui dolci reclutando per un mese il pastry chef di Villa Feltrinelli (2 stelle Michelin).
Ad accompagnare, un quintetto di vini abruzzesi da una carta ben ponderata che contempla artigianale e convenzionale in misura più o meno paritaria, senza oltranzismi o scelte talebane. Tra questi si è distinto il Pecorino Ekwo di Terraviva, tra i bianchi più centrati prodotti da questo vitigno.
CONCLUSIONI
A L’ Arca si fa un’esperienza che, per originalità, supera quella offerta da diverse tavole rinomate, stellate e non. Sul fronte della tecnica i Capretta brothers possono fare ulteriori progressi (anche se non mancano piatti formidabilmente eseguiti); su quello del menu si nota qualche piatto che sembrerebbe un retaggio da osteria rivedibile. Ma i fondamenti per puntare in alto ci sono e siamo sicuri che qualche sorpresa questo ristorante la riserverà nel futuro, tanto meglio se si tratterà di una stella!
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