di Raffaele Mosca
Una dicotomia così estrema non la troviamo da nessun’altra parte: da un lato le grandi cooperative che rendono l’Abruzzo una delle regioni più produttive di Italia anche a fronte di una superficie coltivabile relativamente ridotta, e che non sono per forza dei “mostri”, anzi negli ultimi anni hanno fatto molto per alzare l’asticella e proporre anche etichette più ambiziose; dall’altro un’ampia galassia “indie”, costellata di piccoli e piccolissimi vignaioli con il pallino della sostenibilità ambientale, che creano grandissimo fermento sul fronte del naturale/artigianale.
Due mondi apparentemente inconciliabili, che, in questa regione, hanno dimostrato di poter convivere abbastanza serenamente, di poter stare in una stessa stanza senza pestarsi i piedi. Non che non esistano contrasti all’interno del consorzio: ne sono emersi anche nel nodo ancora irrisolto dell’elezione del nuovo presidente, che alcuni vorrebbero provenisse proprio dal mondo dei privati, visto che, nell’ultimo ventennio, le cantine sociali si sono sempre alternate alla guida.
Ma quando bisogna raccontarsi al pubblico o agli operatori, gli abruzzesi riescono a rinunciare alle beghe tipiche dell’Italietta e vanno in scena tutti quanti (o quasi). E’ quel che è emerso dalle esperienze del Vinitaly, delle fiere all’estero, e a maggior ragione dall’Abruzzo Wine Experience, un evento che quest’anno ha avuto dimensioni considerevoli: 120 i giornalisti provenienti da tutto il mondo che hanno partecipato al Grand Tasting al Palazzo d’Avalos di Vasto e ai tour per cantine. “Qualcosa sta cambiando” è lo slogan del Consorzio, messo in bella mostra all’ingresso del padiglione a Veronafiere; e a cambiare, oltre al panorama produttivo, è proprio il racconto, che non si focalizza solo sui grandi o solo sui piccoli – come, purtroppo, accade in molte altre zone – ma tiene conto di tutto il meglio che ogni filone dell’enologia regionale ha da offrire.
IL PUNTO SULL’ABRUZZO
L’immagine che ci viene restituita dal consorzio vini d’Abruzzo è quella di un comparto regionale in buona salute, che può contare su di numeri importanti: quasi 32.000 gli ettari vitati a fronte di una superficie di 10.831 mila chilometri quadrati, per una produzione che supera i 3 milioni di ettolitri nella vendemmia 2021 (quinto posto in Italia per volume totale). La crescita sui mercati è stata notevole negli ultimi anni: +90% di export dal 2010 al 2020, +33% di vendite nell’ultimo anno in un paese strategico e allo stesso tempo difficile come la Cina, +45% in Svizzera e +25% in Germania. Performance che, va detto, è legata in larga parte al successo del vino abruzzese – e in particolare del Montepulciano – nella grande distribuzione organizzata di tutto il mondo, dove il prezzo medio è ancora troppo basso (sotto i 5 euro, anche se informazioni ufficiali sono difficili da reperire), ma è cresciuto del 19% nell’arco dell’ultimo anno.
La grande novità di questa stagione è il cambiamento radicale di un disciplinare che da tempo necessitava di una riforma. Con il decreto di Marzo spariscono sette delle otto IGT regionali e nascono quattro appellazioni provinciali per le tipologie Superiore e Riserva dei vini d’Abruzzo:Colline Teramane; Colline Pescaresi; Terre de L’Aquila; Terre di Chieti. . “ E’ una scelta in linea con le normative europee – spiega Davide Acerra, direttore della comunicazione del consorzio – permette di individuare in etichetta le diverse aree della regione e premia chi vuole fare qualità, prevedendo anche una riduzione della rese massime per le tipologie Superiore e Riserva.” La mossa, a dire il vero, è anche un punto d’inizio per cominciare a pensare a delle Unità Geografiche Aggiuntive, che sono assolutamente necessarie per valorizzare un territorio con infinite sfumature paesaggistiche, geologiche, climatiche e solo tre interpreti di rilievo – Montepulciano, Pecorino e Trebbiano – che sembrano fare di tutta l’erba un fascio. Già l’anno scorso avevo detto “penso che il giorno in cui vedrò un’etichetta con scritto Trebbiano d’Abruzzo o Pecorino sottozona Loreto Aprutino potrò finalmente dire di essere un uomo felice ” . Quest’ipotesi, a distanza di soli dodici mesi, sembra molto meno remota.
IL GARAGISMO ABRUZZESE
Bene il Grand Tasting a Palazzo D’Avalos che ci ha offerto un bello spaccato sull’enologia regionale, anche se qualche problema nell’organizzazione da parte della delegazione AIS locale ha reso difficile degustare un numero consistente di etichette. Ma non mi stancherò mai di ripetere che, per conoscere davvero un territorio, non basta mettere il naso qui è lì: bisogna girare per valli, vigne e cantine. L’avevamo già fatto a Marzo, in occasione della “piccola anteprima” delle Colline Teramane; lo facciamo di nuovo nello stesso, identico territorio, che è senz’ombra di dubbio il più prolifico della regione, visitando alcuni alfieri del movimento indie che, come già detto sopra, è tra i più dinamici d’Italia in questo momento.
La grande rivoluzione del vino abruzzese negli ultimi anni non è partita dai contadini – che continuano ad essere il pilastro delle cooperative – ma dal ritorno alle terra di figli o nipoti di vignaioli che hanno sentito questo richiamo dopo aver lavorato per anni altrove o in altri settori. Figure come Natalino Colantonio, comproprietario di Bossanova di Controguerra, la vera rivelazione di questo tour teramano. Con un’esperienza decennale in ambito manageriale e una passione per la musica – da qui il nome Bossanova – Natalino ha fondato, insieme al socio Andrea Quaglia, un’azienda perfettamente in linea con lo “zeitgeist”: solo nove ettari vitati condotti in biodinamica, solo fermentazioni spontanee e solo cemento (e un po’ di anfora) in affinamento. Garagismo puro e duro, dichiaratamente ispirato al lavoro di Emidio Pepe, che conta pochissimo sul fronte dei numeri, ma dà lustro all’intera regione. E non è tanto l’approccio in sé per sé a fare la differenza – sono fin troppi i produttori che si avvicinano a questo tipo di viticoltura senza avere le idee chiare e finiscono per creare dei grandi pasticci – quanto il fatto che vada di pari passo con una conoscenza approfondita delle nicchie di mercato che solo chi ha fatto altro nella “vita precedente” può avere, con una visione produttiva e imprenditoriale moltochiara.
Sul Montepulciano, in particolare, il lavoro di questi nuovi vigneron – e qui mi sento di nominare, oltre a Bossanova, la famiglia Topi di Terraviva, i fratelli Altieri di Fontefico, Paolo de Strasser di Abbazia di Propezzano, Fabio Di Donato di Cingilia e Valentina di Camillo di Tenuta I Fauri – è essenziale per cambiare radicalmente l’immagine del vino ed evitare che diventi demodè: il loro obiettivo, infatti, è spogliarlo di tutti gli orpelli, di quelli eccessi di frutto, legno, concentrazione tipici delle etichette che hanno fatto furore nei decenni passati, non rinunciando alla generosità tipica dell’uva, ma abbinandola ad equilibrio, integrità del frutto, facilità di beva garantita da un’estrazione più leggera e da affinamenti in contenitori perlopiù neutri. Un lavoro che ha come risultato uno stile più contemporaneo – ma non per forza allineato e omologata alla moda del “glou glou” – che fa incetta di consensi nell’alta ristorazione. Non è un caso, infatti, che questi vini abbiano trovato subito una collocazione nelle carte di alcune delle migliori osterie di Roma e Milano e di diversi stellati sparsi in giro per la penisola.
Dopodiché c’è il filone “classico”, storico, rappresentato non solo dalle cantine sociali, ma anche da “big” privati come Fantini, Masciarelli, Zaccagnini. Aziende che rappresentano il volto pop dell’Abruzzo e che oramai figurano nella cerchia dei brand vitivinicoli italiani più conosciuti in assoluto. In sede di anteprima, hanno preso la decisione encomiabile di rimanere qualche passo indietro per dare più spazio ai piccoli e medio-piccoli. Ma senza le degustazione delle loro etichette, una panoramica sul vino abruzzese non potrebbe mai essere esaustiva.
La buona notizia che, a livello di G.D.O., i vini dei “giganti” d’Abruzzo non riservano – in linea di massima – brutte sorprese. Comprando, tanto per fare un esempio, il tralcetto di Zaccagnini o il Montepulciano “base” di Cantina Tollo, si ha, infatti, la garanzia di portare a casa un prodottopiacevole, tecnicamente corretto, senza troppe pretese, ma coerente e ben definito nella sua essenzialità. Il problema, forse, si pone quando si sale ai livelli più alti della gamma, perché, se è vero che tutte le aziende in questione hanno cominciato a produrre vini più ambiziosi, destinati principalmente all’Ho.Re.Ca, è anche vero che queste etichette difettano ancora un po’ di personalità, perché inseguono il più delle volte il canone del vino-trofeo di stampo internazionale, senza grande aderenza territoriale. Ci sono chiaramente delle eccezione degne di nota, ma forse servirebbe un po’ più di coraggio, di ostinazione, anche nel fare anche un discorso di “Cru” anziché delle selezione delle migliori uve. Le cooperative, con i loro volumi, potrebbero anche essere le prime a sfruttare le sottozone per i vini di fascia alta – un po’ come fa Arnaldo Rivera con le M.G.A. a Barolo – e, in questo modo, farebbero da apripista per i più piccoli.
In ogni caso, il vino abruzzese cresce su tutti i fronti e merita disamine più approfondite. A breve un report sul Cerasuolo d’Abruzzo, star di 50 Top Rosè. Nel frattempo, ecco gli otto vini di vigneron che hanno catturato l’attenzione nel corso dell’Abruzzo Wine Experience.
Tommaso Olivastri – Abruzzo Cococciola L’Ariosa 2021
Un autoctono del Chietino che comincia a farsi a strada nel mare di Trebbiano e Pecorino. Dà vini freschi, agili, spigliati, perfetti per il consumo immediato, ma anche capaci di sorprendere in evoluzione. Come questo di Tommaso Olivastri, azienda già presente in 50 Top Rosè con il Cerasuolo d’Abruzzo Marcantonio. Prodotto a due passi dal mare, sui primi colli della Costa dei Trabocchi; sa di erbe aromatiche, mentuccia e cappero selvatico ancor prima che di zeste di limone e pesca nettarina. E’ leggero al punto giusto, ma senza diluizione e con toni salmastri frammisti a rintocchi vegetali che ci teletrasportano su quei crinali. Vino-passpartout per la cucina di mare, da stappare ora o nell’arco di un paio d’anni.
Torre dei Beati – Abruzzo Pecorino Giocheremo con i Fiori 2021
Etichetta “benchmark” per il vitigno che è cresciuto di più nell’ultimo ventennio, passando dal semi-oblio ad essere pressapoco onnipresente. Lo producono Fausto Albanesi e Adriana Galasso nella campagna di Loreto Aprutino, il grand cru dei bianchi d’Abruzzo. In questa fortunata versione – frutto di un’annata calda, ma non bollente – tira fuori profumi esuberanti di pesca giallona, nespola e ginestra, che fanno il paio con cenni di erbe spontanee, nocciola e un soffio minerale. Ha un bocca di volume e di spessore, succosa ma non sovrabbondante, con una vagonata di frutta a polpa gialla al centro e l’ acidità schietta, diretta a contrasto. Tra le migliori versioni prodotte negli ultimi anni.
Tenuta Terraviva – Trebbiano d’ Abruzzo Mario’s 44 2016
Bene le nuove annate, ma i bianchi vanno assaggiati anche nel tempo, per comprendere meglio di che stoffa sono fatti. Ci capita nel corso della visita da Terraviva, azienda biologica alle spalle della riviera di Tortoreto. In abbinamento con formaggi, pallotte cac’e ove, timballo di scripelle, capra alla neretese, la famiglia Topi stappa una batteria di bottiglie “affinate”, tra le quali si distinguequesto Trebbiano dai profumi ipnotizzanti: mandarino e anacardi, liquirizia e fieno, pepe bianco, un’idea di miele di millefiori e cenni idrocarburici in crescendo. Il sorso è perfettamente integro, goloso e avvolgente, con polpa ricca, cremosa, sapidità ben dosata, e qualche ritorno più scuro, boschivo sul fondo che fa molto Trebbiano Valentini.
Rapino – Cerasuolo d’ Abruzzo Gira 2019
Ancora Cerasuolo dopo l’exploit abruzzese di 50 Top Rosè. Ma qui parlare di rosa è quasi fuorviante, perché sono sicuro che il Gira di Rapino, servito in un bicchiere nero, verrebbe scambiato da molti per un rosso leggero. Due anni di affinamento e il frutto lascia spazio a cenni di ruggine, cuoio, bacca di ginepro e oliva al forno. La bocca segue lo stesso tracciato, con ritorni boschivi, terrestri e un tannino tutt’altro che trascurabile, che suggerisce l’abbinamento con arrosticini di pecora e agnello al forno.
Tenuta Terraviva – Montepulciano d’ Abruzzo C02 2020
L’anello mancante tra il Montepulciano e il Cerasuolo: un rosso originalissimo ottenuto da uve vinificate a grappolo intero in pieno stile Beajoulais. La macerazione carbonica va ad esaltare il frutto – lampone, visciola, gelso non troppo maturo – che viene preservato attraverso un affinamento nemmeno troppo breve – un anno e mezzo – in acciaio. Tutto questo va a beneficio di una beva succosa, diretta e schietta, ma non banale, quasi da Morgon di produttore molto abile(penso a Marcel Lapierre). E’ il tipo di rosso che può essere sbicchierato da solo all’aperitivo, ma dovrebbe fare la sua porca figura anche con un’amatriciana, o, rimanendo in tema regionale, con la chitarrina con le pallotte.
Tenuta Morganti – Montepulciano d’ Abruzzo Affinato in Anfora 2020
Un’altra novità da un’azienda di Torano Nuovo – “of Emidio Pepe’s fame” direbbero gli anglosassoni – che produce in proprio da pochi anni e si avvale della collaborazione dell’artista Nando Perilli per la realizzazione delle etichette (veramente molto belle!). La versione Anfora del Montepulciano sfoggia un profilo croccante, equilibrato, con mora e giuggiola in prima linea, poi pepe, chiodo di garofano, qualche accenno vegetale a delineare un profilo essenziale e accattivante. Ha più corpo e più presa tannica rispetto al CO2 di Terraviva, ma gioca sempre sulla freschezza, sulla linearità, con la quota di ossigenazione garantita dall’anfora che va ad integrare le componenti, senza però scalfire l’acidità di fondo che garantisce la scorrevolezza del sorso. Ben fatto!
Bossanova – Montepulciano d’ Abruzzo Colline Teramane
Prima verticale per il rosso di punta di Nat Colantonio e Andrea Quaglia. Tre annate che hanno come fil rouge la ricerca di un compromesso tra struttura e scorrevolezza, purezza da vino “senza ritocchi enologici” e pulizia aromatica. La quadratura del cerchio sembra esser stata trovata con la 2020 che, fresca di rilascio, propone un quadro allettante, giocato sulla visciola e sulla viola fresca,con cenni ematici e terrosi a rivendicare l’identità teramana e un tannino giustamente irruente che dà grinta e sapore al sorso agile e disinvolto. Supera per potenziale il 2019: sicuramente appagante e goloso, ma più cupo, più concentrato, meno bilanciato anche nella componente alcolica. La 2018, invece, è l’annata dell’esordio e dimostra che i ragazzi sono partiti con il piede giusto: ha un naso ancora incentrato sul frutto, con giusto qualche cenno di humus e cacao in polvere, e un soro reattivo, succoso, in equilibrio tra frutto e accenti terziari ancora solo accennati.
Tocco – Montepulciano d’ Abruzzo Enisio Riserva 2017
Un altro Montepulciano di vigneron dal fortunato comprensorio di Loreto Aprutino. A differenza dei precedenti, fa un passaggio in barrique, ma questo non ne inficia la beva schietta, che fa da contraltare a un naso complesso, incentrato su toni di cioccolato e composta di morte, rabarbaro ed erbe officinali, tabacco mentolato. Il frutto è lì: largo, avvolgente, maturo. Ma l’acidità fa la sua parte, i tannini spingono il giusto e ritmano un finale arricchito da ritorni boschivi e selvatici. E’ il giusto compresso tra il Montepulciano “vecchia scuola” – largo, avvolgente, confortante – e i vini più slanciati della new wave.
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