di Giulia Gavagnin
I confini geografici europei sono ricordi lontani. Non ci sono più gendarmi ai caselli, la carta di identità è l’eccezione e non la regola. Tuttavia, l’identità di frontiera persiste, soprattutto in alcuni luoghi che sembrano sospesi tra il mondo di oggi e quello che non c’è più. Lenzuolo Bianco è uno di questi, si chiama così dai tempi della Prima Guerra Mondiale, quando ospitava un ricovero per feriti allestito dalla Croce Rossa: i suoi muri erano talmente chiari da essere visti da lontano dai soldati nemici quando sparavano contro le patrie milizie. In quegli anni la famiglia Gravner era già proprietaria di vigneti e frutteti, al di qua e al di là di Oslavia, al confine tra Italia e Slovenia.
Negli anni Settanta Joseph Gravner produceva vini di qualità con i metodi tradizionali e aveva appena iniziato a scontrarsi con il solitario e pensoso erede Francesco, detto “Josko” (le leggi nazionali allora impedivano agli italiani di minoranza slovena di essere battezzati con nomi stranieri, come se l’identità fosse solo una questione linguistica), entusiasta delle più moderne tecnologie e dei trattamenti più all’avanguardia. Già negli anni Ottanta Josko viene incoronato “re del vino” da prestigiose riviste straniere: i suoi vini sono definiti “freschi, croccanti, ma compiuti”, dei piccoli capolavori di enologia contemporanea che ancora oggi resistono allo scorrere degli anni: il “Breg” 1990, uvaggio di merlot e cabernet sauvignon è ancora oggi considerato un capolavoro di resilienza.
Nel 1987, però, la svolta dopo un viaggio studio in California, che allora sembrava la Terra Promessa in tutti i sensi: Josko non trova l’avanguardia che immaginava, ma una violenza sistematica ai danni dei prodotti della terra e dell’ambiente, tra fertilizzanti che a poco a poco modificano le caratteristiche naturali del terreno e additivi aggiunti al vino per farlo apparire più muscolare. Sono gli anni dei vini potenti e strutturati, delle barrique,del critico americano Robert Parker Jr. che fa impennare i prezzi dei gran cru di Bordeaux esaltandone le note di tabacco, caffè e cioccolato, del merlot e del cabernet sauvignon che pure Gravner produce. Josko comprende che l’uomo ha fatto il passo più lungo della gamba, che la tecnologia ha cento anni, ma la storia della Terra e del suo più illustre abitante è plurimillenaria. Così inizia a studiare a fondo, fisiologia del territorio e testi antichi, scopre che l’agronomo Lucio Columella, nato nel 4 dopo Cristo, aveva riferito di grandi vasi d’anfora nei quali le popolazione caucasiche vinificavano già mille anni prima di Cristo. Intuisce che il futuro è lì, nel passato, nell’ancestrale. La sua convinzione aumenta nel 1996, quando una grandinata distrugge quasi tutto il lavoro di un anno (mio zio Franc disse. “chi decide di fare il contadino deve mettere in conto che ogni tanto, senza preavviso, la Terra può portarsi via qualcosa”) e per salvare il residuo decide di tentare la strada antica della macerazione e dell’utilizzo di grandi tini di legno per la fermentazione. La metamorfosi definitiva avviene una decina d’anni più tardi, quando imbottiglia il primo uvaggio bianco fermentato in un’anfora georgiana interrata.
Lenzuolo Bianco oggi, è un luogo d’avanguardia e richiami ancestrali antichi. Quindici vigneti vitati (tre in divenire), tra il versante dell’italiana Oslavia e degli sloveni Dedno e Hum. Dolci declivi puntinati dai colori della ribolla e del pignolo, i vitigni autoctoni che stanno sostituendo quelli internazionali, in ossequio a una promessa che moti anni fa Josko fece a Luigi Veronelli, di produrre solo vini da uve locali. Senza rimpianti da parte sua, ma con qualche lacrima da parte nostra, nel 2012 il mitologico bianco “Breg” ha salutato il pubblico con il canto del cigno, lasciando orfani gli appassionati di quel mèlange ipnotico di sauvignon, pinot grigio, chardonnay e riesling italico che in passato aveva ammaliato legioni di appassionati e non con le sue inconfondibili note di erbe aromatiche, zafferano, frutta secca, polvere di albicocca disidratata, miele di acacia.
D’ora in poi saranno solo ribolla e pignolo, un bianco e un rosso, scanditi dal ferreo ciclo delle stagioni e dal numero 7. “il ciclo biologico dell’uomo va rispettato, avviene con cicli di 7 anni ciascuno. Questo è il tempo di invecchiamento dei miei vini bianchi, 1 in anfora e 6 in botti grandi. I rossi non sono adatti a un invecchiamento così lungo”, dice. Tempo è rispetto di sé, degli altri e del mondo che ci circonda. Josko Gravner è uno dei pochi viticoltori al mondo a non aver fretta di vendere il suo vino, perché “il vino lo produco per me, il resto lo vendo”. “Servono tre cose per fare il vino”, continua, con aria serafica. “La terra, il vetro, e il legno. L’anfora è interrata come facevano gli antichi caucasici perché è come un utero. L’anfora permette di non controllare il livello zuccherino, di non fare aggiunte, perché se non sottrai e non aggiungi non hai nulla da controllare. L’unica aggiunta che mi concedo è una piccolissima quantità di solforosa alla fine del processo, perché senza di quella il vino diventa aceto. I peggiori vini li ho prodotti molti anni fa senza aggiunta di solforosa, credendo che fosse il male assoluto”.
E’ un’affermazione forte, che ha fatto indignare i puristi dei cosiddetti “vini naturali” per i quali la solforosa aggiunta è fumo negli occhi. Tuttavia, è difficile immaginare un viticoltore più autenticamente naturale di Josko Gravner. Dopo aver allestito la surreale “sala delle anfore interrate”, deputate alla fermentazione della ribolla, ha apportato significativi cambiamenti nei vigneti. Sono stati inseriti cinque stagni artificiali perché “la vita proviene dall’acqua, grazie alla quale arrivano nel vigneto piante, animali e insetti che facevano parte del patrimonio ancestrale della vigna”. Sono stati piantati olivi e cipressi, naturali protettori della vite. Infine un grande giardino botanico prenderà vita entro i prossimi cinque anni per favorire il maggior ricambio possibile di elementi vitali al micro-ecosistema del mondo Gravner, in una prospettiva totalmente anarchica.
Sono vini diversi, complessi, che raccontano la storia di un uomo, una terra, un lavoro. Sono vini gravati da una nobiltà innata. La ribolla 2010 è maestosa, resisterà all’invecchiamento per molti anni, con i suoi riflessi ambrati, i sentori di origano e pompelmo, la scorza di bergamotto, la frutta secca e i sentori balsamici. La riserva, che esce solo di tanto in tanto, quando le condizioni ambientali sono tali da permettere l’affinamento in bottiglia per ulteriori sette anni (che si aggiungono quindi, ai primi sette) è una concentrazione all’ennesima potenza della sorella minore, con le stesse caratteristiche ma sfumature di finezza inusitate. Gli aromi sono più concentrati, l’agrume più intenso e si aggiungono note di burro di arachidi e spezie aromatiche. Prelevata direttamente dall’anfora, quasi ma non ancora pronta per l’imbottigliamento, lascia avvertire la grandezza del padre, che in questo angolo di confine ha saputo donare unicità alla vitalità scomposta della terra.
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