di Monica Piscitelli
Presidio Slow Food
“Green ground”. Basta rispolverare l’inglese della scuola media inferiore per capire che si tratta di “terreno verde”. Eppure lascia interdetti il pensare affidato ad un lingua straniera, per quanto comune, il futuro dei conigli da fossa. Superata la prima perplessità, ne sopraggiunge un’altra: la terra, di per sé, è tutt’altro che verde! A meno che non si tratti di una terra speciale. Come quella della più grande e popolata delle isole dell’arcipelago campano: Ischia.
Condizioni geotermiche irripetibili, tra immersioni ed emersioni dal mare, eruzioni e nuovi sprofondamenti, favorirono decine di migliaia di anni fa, il viraggio cromatico, in verde, del tufo. Oggi di questa roccia, utilizzata da sempre per tirar su i caratteristici muretti a secco, offrono uno spettacolo straordinario le scarpate dei crinali nord e a sud dell’Epomeo, la montagna nata circa 28000 dall’instancabile rimestare della natura vulcanica nelle sue viscere.
Ed è cosi’ che Ischia, unica al mondo, si colora di due verdi: quello del tufo e quello delle vigne, delle pinete, dei castagneti, delle acacie, e delle piante che, la natura prima, e l’uomo poi, hanno scelto per lei. Verde da verde.
Gli agricoltori zootecnici custodi dell’Isola, guidati da Riccardo D’Ambra, il primo ad aver sostenuto la causa del coniglio di Ischia, prima attraverso l’istituzione della Confraternita degli amici dell’animale (era il 5 ottobre 2001), e, poi, con l’Associazione Green Ground, si sono dotati di un semplice, e significativo insieme, slogan: “Ischia: un’isola di terra”. Con Riccardo, lavora al progetto la figlia Silvia, agronoma; una delle otto risorse (nove con la moglie Loretta) che fanno parte della “ciurma” (così si definiscono) de Il Focolare (tel. 081 902944), la trattoria “fedele alla tradizione e audace nel creare”, che è uno degli avamposti della battaglia di D’Ambra per la difesa del coniglio e “della cucina tipica non solo isolana”.
Ma questa ciurma, più che seguire le correnti del mare e pescare, segue i conigli nei cunicoli e affonda le mani nella terra affiancando alla difesa del roditore, presidio Slow Food, quella del Fagiolo Zampognaro. Una ciurma, dunque, dedita alla cucina terragna dalla collinare Barano d’Ischia, in un’isola che ha scoperto il suo mare solo in tempi relativamente recenti. Ricapitolando: l’isola è verde, è di terra, di verde terra, e la ciurma è “di terra” pure lei. E il coniglio?
Attenzione, mi raccomanda D’Ambra, il coniglio è “da” fossa e non “di” fossa. Alla mia domanda di spiegare la differenza, si limita ad un enigmatico sorriso. Quando si parla di un animale tanto piccolo, ne convengo, un “di” o un “da”, fanno una differenza grande. Ma c’è di più. Mi piace pensare che il coniglio viene “dalla” fossa, ma non le appartenga veramente.
La storia, difatti, racconta che il coniglio, originariamente, era libero. Portato sull’isola dai Romani, (l’immancabile Plinio il Vecchio lo conferma), il coniglio, ambientatosi perfettamente, ha, nel corso dei secoli, giocato alla preda e al cacciatore con contadini e Regnanti che a Ischia costruivano le proprie residenze. Ma, a lungo andare, il timido roditore, morbido e dolce giocattolo per bambini, trastullo venatorio per i ricchi e alimento che ha riscosso, nei secoli, consensi non unanimi, si è trasformato definitivamente in un flagello.
La velocità con la quale si riproduce, lo ha fatto trasformare da gradito colonizzatore, in ospite invadente e insopportabile, assolutamente refrattario alle regole elementari di una pacifica convivenza con l’uomo. Dopo averlo combattuto a lungo per difendere i propri raccolti, i contadini ebbero un’intuizione.
Mi sembra di vederlo il primo che, un bel mattino, alzatasi di buonora per dar acqua al suo orticello, lo trova ancora una volta orrendamente deturpato. Poi un fruscio, e due orecchie fanno capolino tra le lattughe dilaniate. Il sabotatore è ancora ad abbuffarsi alla tavola del contadino. Senza decenza alcuna.
E’ l’ultima volta: finisce nel fosso scavato non lontano per dare terra nuova alle vigne o per conservare la neve. Da selvatico incursore della campagna ischitana, la petit peste, finisce cosi’, ormai da oltre cinque secoli (dal 1500 l’uso delle fosse è divenuto rilevante, dicono le fonti), nel suo “box” profondo oltre due metri, a divertirsi con il suo gioco preferito: lo scavo. Come i bambini irrequieti quando la mamma ha da sbrigare le faccende domestiche.
Unico confine posto a questa condizione di semilibertà è la montagna. “Sono le femmine”- mi spiega Riccardo D’Ambra- “a scavare. E lo fanno in orizzontale, mai verso l’alto o verso il basso”. Ricoperte a parracine tre pareti, sulla quarta di terra viva, i contadini avviano lo scavo perché da lì la femmina inizi a costruirsi casa. E si dà il caso che questo “libero” scavare vada esattamente verso la montagna, da dove non si può scappare.
Il coniglio (il cui nome viene da “cunicolo”), crea prima una galleria che fa da ingresso e, poi, una piccola anticamera dalla quale si dipartono una serie di altri cunicoli e le stanzette che accolgono le tre femmine di questo condominio sotterraneo, con i loro piccoli. I maschi, invece, trascorrono altrove la loro vita in attesa dell’accoppiamento.
All’esterno, sotto la porzione di cielo che il fosso concede, si abbeverano e mangiano, a seconda della stagione, erba fresca, paglia, steli e gambi si fave, baccelli di fagioli, residui di potatura, o, in periodo di vendemmia, ‘u nuatl’ (mix di foglie di fico, di vite e tralci di vite freschi). Avranno 5 gravidanze e una trentina di cuccioli prima di andare in pensione.
E’ la zona foriano-serranese generalmente riconosciuta come elettiva di questa forma di allevamento (oggi si contano in totale un centinaio di fosse sparpagliate per l’isola) che richiede una buona dose di conoscenze etologiche e tecniche. Un patrimonio antico di saperi che si tramanda in linea maschile.
E’ all’uomo che spetta la creazione del fosso, a lui l’onore di far scattare, con un complesso sistema di funi, le barriere che, attirati fuori i conigli, ostruiscono l’ingresso dei cunicoli per catturare l’esemplare designato. E’ sempre un uomo, il capofamiglia, a ricevere secondo la tradizione, il primo boccone e quello più pregiato, il quarto posteriore, durante la spartizione a tavola del piatto. Dopo di lui i bambini, cui tocca la parte anteriore.
Ma fin qui la storia del coniglio è storia contadina. Poi, d’un tratto, il “coniglio all’ischitana” diventa patrimonio del mondo e complemento inscindibile dei bucatini per i milioni di persone che, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, hanno solcato a nuoto o in barca il mare, sudato alle terme, o camminato per i sentieri dell’antica Pithecusa. Dal fosso, o dalla sua gabbia, il coniglio è saltato nel piatto nei ristoranti giù al mare. Ma ha rischiato di fare un salto senza ritorno a causa dell’espandersi incontrollato del turismo.
Solo poco più di cinquanta anni fa, Ischia – “il Continente” come la definì l’architetto vigneron Corrado D’Ambra, fratello di Riccardo, alludendo alla complessità morfologica, climatica e alla ricchezza dell’isola – aveva un’economia basata per il 90% sull’agricoltura. Erano i tempi in cui Mario D’Ambra, con fratelli Salvatore e Michele, scriveva pagine di storia della Campania vitivinicola intingendo la sua penna nel calamaio colmo di Per ‘e Palumm e Biancolella. In questo breve arco di tempo la popolazione è più che raddoppiata (con punte di congestione intollerabili nei mesi estivi), la cementificazione è cresciuta a ritmi esponenziali, l’agricoltura ha assunto un ruolo residuale e i 3000 ettari di vigne del pre-boom si sono ridotti a 350, condotti due volte in maniera eroica: per essere aggrappate, anche ad altezze considerevoli, a balze di terra rubate alla montagna e, per di più, soffocate dalle seconde case dei villeggianti napoletani.
Ancora oggi, dunque, il coniglio (l’animale, più che il piatto), nel suo essere semiselvatico, rappresenta l’identità profonda dell’isola, mai del tutto asservita al turismo. Un’identità che viaggia fino alle narici, trasportata dagli aromi sprigionati dalle spezie (timo, prezzemolo, basilico e altre) che vengono aggiunte durante la sua cottura, quando, dopo una “prima rosolata” con un’intera testa d’aglio “vestita” (non sbucciata), in padella a fuoco vivo, è trasferito in un tegame di terracotta e tirato con il vino.
Vestito di spezie selvatiche, anziché di pelli, il coniglio da fossa perpetua dal piatto l’irruzione rituale del mondo naturale in quello domestico operata dall’ uomo dei boschi, la maschera del selvaggio nota ai Carnevali di tutta Europa e, fino a qualche decennio fa, presente anche in quello di Campagnano, comune a sud dell’isola. Ed ha, infine, ragione del predatore dell’Isola di terra che brandendo il suo “forcone”, cade sotto i colpi della sua silvanità dirompente.
LA RICETTA
Dai un'occhiata anche a:
- Pasta fresca artigianale fatta a mano, tutta la biodiversità del Mezzogiorno
- Enoteca Sapori d’Arneo e la Putea di Ilaria Donateo a Porto Cesareo
- Il cotechino irpino e la pezzente
- La rivincita del Fior di Latte è nel successo di imprenditori che hanno colto il momento pizzainvece di pensare al congelato in Usa
- Il vero ragù napoletano secondo la tradizione di Raffaele Bracale
- La Paposcia del Gargano: gli indirizzi di chi la fa davvero buona
- La mela limoncella di Sant’Agata sui Due Golfi in Penisola Sorrentina
- La mela limoncella della Penisola Sorrentina