Allarme a Vinitaly
Avete presente quando si avvertono i primi sintomi dell’influenza ma non al punto tale da farvi ammettere di essere malati? E’ questa la sensazione molto sgradevole che ho provato quest’anno a Verona girando tra gli stand e facendo alcuni assaggi ad Avellino e nel Vulture scoprendo che sono sempre più numerose le aziende che usano e dichiarano merlot e cabernet. Fermo restando che ognuno è padrone di fare quello che vuole in casa propria, riesce difficile comprendere il motivo di questa tendenza, in genere imposta da enologi che vengono da fuori ossessionati dall’idea della morbidezza, anche in territori autentici come l’Irpinia, il Sannio e nel vicino Vulture dove questa epidemia vinifera ha già manifestato i primi gravi sintomi, un ritorno alla barbarie ante-metanolo.
La risposta alla domanda di come sia possibile coltivare merlot, e persino sangiovese che al Sud viene sempre una schifezza, nel cuore delle tre docg la risposta è sempre la stessa: cerchiamo di andare incontro al gusto del consumatore. Già, ma quale gusto, quale consumatore? Secondo voi è la morbidezza o l’acidità a spingere verso il secondo bicchiere?
Vediamo di affrontare la cosa dal punto di vista di chi beve e di chi produce.
Il consumatore di fascia bassa, gli analfabeti del gusto che considerano il vino una bevanda come un’altra, giudicano oneroso spendere più di tre euro a bottiglia. Sono loro i prototipi del gusto morbido per eccellenza, stile Tavernello e Nero d’Avola base per intenderci. E’ questo il pubblico a cui intendono rivolgersi i produttori irpini impegnati con il merlot? Credo che presto saranno spazzati da bottiglie a due, a un euro, piene di trucioli prodotte in Australia e Cile. Accomodatevi.
Il consumatore che acquista le bottiglie orecchiando ma ha grande disponibilità punta diretto ai marchi affermati dell’enologia italiana e francese senza perdere tempo. La filosofia commerciale di Enzo Ercolino sui Feudi, per capirci, era proprio questa, creare un marchio più forte del territorio sull’esempio di alcune storie di successo toscane degli anni ’90: c’è questa idea dietro la decisione di legare il nome aziendale a un merlot piuttosto che al Taurasi spingendolo oltre ogni umana comprensione e giustificazione. Ma questo ora sarebbe possibile dopo la grande crisi 2002-2005 che ha spazzato le griffe in quanto tali come motivo di acquisto per il consumatore consapevole? E, soprattutto, può valere per aziende da 50-100mila bottiglie? Cosa pensereste se Marsella, Clelia Romano, Torricino e Benito Ferrara producessro Chardonnay per un loro bianco? Insomma, usando una parafrasi politica, perché votare la sinistra che fa una politica di destra se c’è già una vera destra? Come pensate di vendere ai prezzi che proponete? L’esempio del Patrimo da questo punto di vista dovrà pure servire a qualcosa, come la macchina distrutta in un incidente d’auto che impone chi passa a rallentare e riflettere: il merlot d’Irpinia resta fuori dalle grazie degli appassionati e invenduto nei ristoranti che lo hanno incautamente acquistato a prezzi esagerati.
Il consumatore life style, per usare una espressione che piace al mio amico Eugenio Pomarici, non comprerà mai un rosso irpino o sannita o vulturino che non sia aglianico in purezza. Per questo sarà disposto a spendere anche alte cifre, soprattutto se straniero. Vi siete mai chiesti perchè Mastroberardino e Terredora non hanno deviato di un centimetro da questa linea rigorosa e come mai i produttori di maggiore successo come Molettieri e Caggiano escludono questa possibilità? Qui forse scatta il gene greco tipico dei meridionali, che si riassume nella frase, non mi importa, io posso fare meglio. Così si finisce contro un bel palo. Auguri.
Se dal punto di vista delle attuali analisi di mercato, che ho riassunto alla buona, è una follia rinunciare alla propria identità agricola, sul versante della produzione evidenzia gravissimi difetti di partenza che devono fare riflettere chi si avvicina a questi vini.
Al primo posto c’è l’insicurezza produttiva. Siccome non sappiamo come lavorare l’Aglianico, ci affidiamo a un po’ di merlot per non sbagliare visto che i protocolli delle uve internazionali sono sperimentati da secoli e in tutte le condizioni climatiche e di terreno possibili. Quindi chi usa merlot e altre uve internazionali non sa vinificare e governare le uve nei campi e in cantina come si deve. Un po’ come usare le pinne quando si nuota.
Segue l’insicurezza commerciale. <Non so come andrà a finire sul mercato, quindi mi tengo aperte tutte le porte>, ragionamento tipico di chi fino ad una certa età ha conferito le uve invece di vinificare e che adesso è costretto a navigare per conto proprio. In realtà, quando siamo su poche migliaia di bottiglie, diciamo anche decine di migliaia, non ci possono essere dubbi che solo lavorando su uve autoctone e caratterizzando una precisa identità si può avere successo e destare l’interesse della critica. Nessuno farà una scheda di un vino aglianico e merlot convinto di proporre qualcosa di originale e interessante al lettore
Vorrei ancora analizzare la questione dal punto di vista territoriale perché emergono spunti molto interessanti che invitano ad approfondire l’argomento, il cui tema è il desiderio di suicidio di alcune aziende, come mettere il parquet al posto del cotto in campagna.
La domanda da fare a queste aziende è la seguente: voi dite che usate merlot per ammorbidire l’aglianico, ma perché allora non utilizzate, o non dichiarate, chardonnay o sauvignon per fare la stessa cosa con Fiano, Greco, Coda di Volpe che hanno simili problemi di acidità? La risposta a mio parere è molto semplice, la trovate nel fatto che in realtà la Campania ha una vocazione, direi un genius loci, bianchista lungo la dorsale appenninica e che dunque ci sono dei parametri varietali e dei protocolli in cantina ormai ben fissati e tramandati da padre in figlio a cui si è aggiunta una tecnica di vinificazione consapevole. Non a caso i bianchi campani emergono con forza a livello nazionale nelle degustazioni coperte ed è per queste che sono tante le aziende che lavorano davvero alla grande, di ogni dimensione. In realtà la tradizione dell’Aglianico è, parlo ovviamente del territorio considerato nel suo complesso, ancora molto giovane, appena una decina di vendemmie e poco più. Questa insicurezza colturale fa da contraltare a quella culturale e dunque il risultato è la soluzione merlot.
Resta inteso che regioni come la Puglia e la Sicilia, dove questi discorsi sono ancora più gravi perché il merlot e il cabernet si dichiarano senza sensi di colpa come invece avviene in Campania e in Basilicata, non riescono ad apprezzare le loro bottiglie oltre una certa cifra. Io posso giustificare chi lavora sulle grandi quantità, nel senso che commercialmente capisco che la fascia meno alfabetizzata degli amanti del vino preferisca un impatto immediatamente morbido, ma quando si parla di qualità e territorio il discorso deve necessariamente puntare sui vitigni autoctoni, altrimenti il vino di punta della Cantina del Taburno sarebbe il merlotizzato Fidelis privo di identità e non il fantastico aglianico Bue Apis da collezionare per una vita!
C’è poi una curiosità antropologica a cui non riesco a dare spiegazione: il Sannio sta uscendo dall’indecisione che lo accomunava alla Puglia e alla Sicilia, l’indecisione tipica delle zone ad alta produzione, grazie all’Aglianico e alla Falanghina. I produttori vesuviani, napoletani e aversani, che sicuramente hanno il commercio nel sangue come nessun altro, puntano alla riscoperta di falanghina, piedirosso e di catalanesca per emergere e presentarsi in maniera decente sul mercato dopo aver lavorato per generazioni sangiovese, trebbiano e montepulciano. Come mai l’Irpinia e il Vulture stanno avendo pruriti che spingono ad una direzione opposta? Credo che sia ignoranza, superficialità, l’incapacità di credere in se stessi e nella costruzione di una identità forte di territorio. Nel senso che sicuramente si possono fare buoni vini, ma non servono per crescere, del resto se il problema fosse questo davvero basterebbe usare il kit fai da te denunciato dalla Coldiretti al Vinitaly.
Così come ho sempre pensato e creduto nella integrazione culturale tra gli uomini, nel senso che la Civiltà è una grande corsa dell’uomo nella quale la prima posizione ora tocca all’uno, ora all’altro, per quanto riguarda il mondo del vino credo che per i prossimi anni i territori italiani possono affermarsi solo lavorando sui vitigni autoctoni: oggi non sarebbe possibile un fenomeno Sassicaia giusto per citare il caso più famoso di contaminazione, oppure un altro Monetevtrano in Campania. Vini come questi sono grandi tracce frutto di progetti culturali pensati in un’epoca diversa, anche se vicina, e che per questo conservano oggi il loro fascino e la loro attualità. Ma non è pensabile per nessuno affermarsi in Irpinia o nel Sannio, o anche nel Vulture, con un Cabernet o un Merlot. Queste uve vanno tolte, estirpate, combattute come si farebbe con chi pianta oppio, sono il segnale di una degenerazione culturale, un attentato al territorio peggiore del terremoto perché se si affermano costringeranno nuovamente i giovani ad abbandonare i campi e ad emigrare. Sono tutto quello che la Campania ha evitato per crescere e affermarsi, sino al punto da escluderle dalla Igt regionale, unico caso in Italia.
Credo anzi che sia iniziato il momento di lanciare una battaglia culturale e colturale per revocare l’autorizzazione a coltivarle dalle zone docg seguendo i protocolli normativi usati per il biologico e bonificare gli areali da ogni contaminazione. Questa sarebbe una vera, grande notizia mediatica che rimbalzerebbe in tutto il mondo: vietato il merlot nella zona del Taurasi e in tutte le doc che aspirano a passare di categoria come il Vulture e il Taburno!
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