di Luciano Pignataro
Tra Ostuni e l’Adriatico c’è la contrada Conca d’Oro. Villa Agreste è il riferimento di questo territorio segnato dalla presenza di centinaia di ulivi millenari, veri e propri monumenti vegetali che da soli valgono il viaggio e da cui si ricava olio spettacolare.
Il proprietario, Enzo Iaia, commercialista, appassionato di cavalli con i quali potete anche scorazzare in libertà, ha fatto le cose perbene senza lesinare nulla e creando un progetto coerente, culturale e colturale in cui la complessa semplicità della natura è la protagonista. A parte gli ambienti dedicati all’ospitalità, curati nei minimi dettagli, con tanto di piscina e palestra, il nucleo centrale è costituito dalla cantina dove si è recuperato un vecchio frantoio secolare che ha un valore didattico perché si capisce come abbiamo prodotto olio per millenni prima dell’introduzione delle nuove tecnologie in acciaio. C’è poi una bella e suggestiva sala eventi e una sala per le degustazioni dei vini, l’ultimo progetto che ha preso forma in collaborazione con l’enologo Simone Santoro.
Ed è proprio il progetto vino che ha candidato questa bella struttura a soli cinque chilometri dal mare in questa sciagurata rubrica gestita con passione. Perché passione chiama passione e in questo caso, parlo di Villa Agreste, diventa l’ingrediente fondamentale per fare le cose che durano.
C’è, oltre alla passione, l’orgoglio per la propria terra, il proprio campanile, croce e delizia della nostra Italia, che per gli appassionati di vino e di agricoltura: Enzo Iaia ha voluto resuscitare la Doc Ostuni, una delle tante denominazioni rantolanti sparse qua e là, e il grafico lo ha seguito stilizzando Sant’Oronzo, protettore delle città bianca, sulle bottiglie.
Ma c’è ancora di più, molto di più. In una regione dominata dal tridente Primitivo, Nero di Troia e Negroamaro, ancora abbastanza confusa sul bianco nonostante l’eccezionale prova del bombino spumantizzato con metodo classico a San Severo da più azienda e l’evoluzione del Minutolo in Valle d’Itria, ecco una azienda che punta decisa sui vitigni autoctoni dimenticati, non ancora conosciuti dal grande pubblico, una scelta realizzata su cinque ettari di coerenza e che regala un senso compiuto a questo agriturismo dove produzione e ospitalità si incrociano.
Si dice che il turismo banalizza l’offerta, in questo caso è il contrario. Qui troviamo le uve a bacca rossa ottavianello, susumaniello, notardomenico e quelle a bacca bianca francavidda (al Sud spesso la elle diventa d direttamente dal latino), impigno e anche minutolo. E da queste uve vengono prodotti vini sinceri, amicali, non costruiti per sembrare altro, ma per capire il comportamento e l’evoluzione delle uve nel bicchiere. Si tratta di uve antiche, sopravvissute nella memoria dei contadini, in parte citate dal nobile piemontese appassionato di agricoltura Giuseppe di Rovasenda nel suo “Saggio di Ampelografia Nazionale” del 1877. Vitigni a cui bisogna costruire un percorso moderno rispettando le caratteristiche.
Ora in questo caso l’errore da evitare, perfettamente ripetuto negli anni ’90 in Italia e di cui ci si è per fortuna liberati progressivamente, è trattare le uve autoctone con protocolli sperimentati in altre uve già studiate e verificate.
Ecco, la butto lì, forse in questo caso l’approccio “naturale” può essere maggiormente d’aiuto nell’approccio perché non impone un cammino ma cerca di seguire il corso del vitigno, fermo restando l’assunto che è sempre la mano dell’uomo ad essere decisiva.
La varietà colturale ha origine anche nella diversità del suolo che cambia radicalmente a poche decine di metri, più in basso quello limoso, argilloso e fertile dove sono allevati i vitigni a bacca rossa mentre i bianchi sono un po’ più sopra su terreno di natura calcarea e ghiaiosa.
Ma godiamoci gli assaggi
Botto 2022 Spumante Brut Salento igt
Ottenuto da uve impigno e francavidda (25%) realizzato con metodo charmat. Una vera sorpresa: sapido, minerale, freschissimo, teso, dissetante. Da bere direttamente dal collo della bottiglia abbinando alla Mozzarella di Gioia del Colle.
Morellina 2022
L’ultimo nato a Villa Agreste, parliamo dello scorso ottobre, ottenuto da ottavianello vinificato in bianco. Voglia di sperimentate e percorrere strade nuove. Vinificato in acciaio e poi elevato in bottiglia, è un bianco di carattere, dal naso timido ma dal palato di carattere, da spendere anche su piatti strutturati.
26 Agosto 2022
Un rosato che nasce nel 2020 e porta il nome del giorno in cui si celebra Sant’Oronzo a Ostuni. La particolarità è nell’aver ripreso il costume antico dei contadini di ottenere il rosato unendo bianco e rosso. In questo caso ci troviamo, appunto, impigno, francavidda, minutolo, ottavianello, susumaniello e notardomenico. Setoso al palato, fresco, lunghissimo.
Ottavianello 2021 Ostuni doc
Integrato con un piccola percentuale di uve susumaniello e notardomenico.
Ci colpisce la modernità della interpretazione di questo rosso, lontano dalla voglia di fare il classico vinone, è bevibile, dai tannini risolti, fine ma di gran carattere.
Conclusione
Il pregio di questa chicca d’amore è quello di essere stata pensata in una regione dai numeri enormi, la seconda d’Italia dopo il Veneto. Sarebbe un esempio virtuoso da seguire in Vulture, in Irpinia e in certe zone della Calabria dove piccole aziende si ostinano a presentare la stessa proposta delle cantine più grandi. A parte queste considerazioni, il mio consiglio è prenotarvi una bella vacanza qui e bere una Puglia come non l’avete mai bevuta, interessante e divertente. Non saranno certo i vini più buoni del mondo, ma li ricorderete con simpatia e nostalgia quando saranno terminati.
www.villaagreste.com
Ps: grazie al patron Enzo Iaia e alla sommelier Ilaria Oliva, brand ambassador di Villa Agreste per il tempo trascorso insieme, purtroppo troppo poco, e complimenti alla mamma di Ilaria, grandissima cuoca!
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