di Luciano Pignataro
Non è certo una novità la predisposizione all’invecchiamento sano e gioioso dell’Aglianico in generale e del Vulture in particolare. Quando si lasciano dormire le bottiglie al riparo della luce, stese e a temperatura giusta non c’è bottiglia ben eseguita che possa ossidarsi. Naturalmente molto dipende dall’annata e dal protocollo di lavorazione, ma in generale possiamo dire che fra acidità e alcol e davvero difficile perdersi grandi bevute.
Spinto da non so quale impulso infanticida ho allungato la mano verso la magnum di Rotondo di Paternoster, anno 1998, oltre un quarto di secolo fa. Il motivo che mi spinge a parlare di questo vino è il fatto che questa etichetta della storica cantina di Barile, che ebbi la fortuna di visitare quando ancora aveva la vecchia sede nel cuore del paese arbëreshe a quota 600 metri, parte proprio con questo millesimo spettacolare in Vulture.
Perché la decisione di affiancare al Don Anselmo, etichetta portabandiera dell’azienda un secondo vino? Bisogna ritornare con la mente a 26 anni fa, ossia alla fine degli anni ’80 quando l’uso della barrique, sotto la spinta di Parker nel mondo e di Veronelli in Italia, conobbe uno sviluppo incredibile. In pratica, nonostante la resilienza di alcuni produttori tradizionali che usavano botti grandi, non c’era cantina che non avesse il 225 litri da esibire al visitatore con la stessa foga con la quale oggi vengono nascoste in un doppio fondo sostituite dall’anfora o dagli antichi tonneaux. Moda che va, moda che viene, fatto sta che Paternoster decise di produrre una etichetta dall’uva di una tenuta appena acquisita fuori il paese dove poi sarebbe sorta la moferna cantina, utilizzando appunto la barrique per l’aglianico chiamando la bottiglia Rotondo. Fu, manco a dirlo, il primo tre bicchieri della Basilicata dopo anni di due bicchieri al Don Anselmo.
All’epoca la Guida Gambero-SlowFood era un vero Ipse dixit nel mondo del vino capace di orientare il mercato e svuotare effettivamente le cantine. I tradizionalisti continuarono a preferire il Don Anselmo ma fu il Rotondo il vino emblematico del rinnovamento del Vulture sino all’arrivo di Titolo di Elena Fucci a partire dal 2004.
A distanza di tanti anni cosa possiamo dire. Beh, in tutta sincerità che la scelta della Guida Ipse dixit era forse omolgante ai mantra dell’epoca ma che non era sbagliata: il Rotondo 1998, annata che Veronelli definì problematica in cantina nonostante i facili entusiasti da vendemmia del secolo che allora si portavano quanto le barrique, si è espresso con una perfezione didattica assoluta, senza sbavature, senza cedimenti, senza residui, con un naso maturo in cui frutto e legno appaiono assolutamente ben integrati e un palato bellissimo, elegante, fine, con una chiusura lunghissima e precisa che invoglia a ripetere il sorso. Non c’è stanchezza bnel berlo nonostante l’alcol e ben si è accompagnato ad ogni ben di Dio, da un erborinato cilentano di capra alla milza imbottita, dal cotechino irpino alla pasta e ceci e ai pecorini stagionati.
Una grande bevuta che ci ricorda una stagione di grande entusiasmo anche al Sud, atteggiamento ottimistico che ha avuto le sue difficoltà ma anche le sue conferme. Un vino assolutamente identitario, che conferma le potenzialità in credibili di questa regione vulcanica, dello stesso territorio di Barile, il paese che ha il lato nord-est della sua collina trasformato in una gruviera per le oltre cento cantine scavate nel corso dei secoli e che oggi compongono il cammino delle Sheshë.
Un territorio onirico, silente, sorvegliato dalle sette bocche del vulcano che esplose in modo devastante 700mila anni fa e dai castelli di Lagopesole e Menfi costruiti dal grande Federico II, un monarca decisamente più moderno e aperto mentalmente della nostra attuale classe dirigente.
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