di Luciano Pignataro
Possiamo dire che il Lupicaia 2001 è l’ultimo vino degli anni ’90? Beh, da un punto di vista psicologico sicuramente si visto che quell’anno, con l’attacco alle Torri Gemelle, siamo entrati in una nuova fase storica che ci ha fatto cambiare molte abitudini quotidiane, ma soprattutto perché il mondo del vino interruppe la sua cavalcata trionfale iniziata nel decennio precedente dovendo fare i conti con una improvvisa crisi del mercato americano, principale sbocco naturale dell’export italiano.
Ma la vendemmia, dopo la calda 2000, nulla faceva presagire del brutale e progressivo cambio climatico: annata inizialmente piovosa e con una gelata ad aprile che in Toscana tagliò la produzione del 15% circa, poi riequilibrata da un buon andamento che ha portato persino ad un po’ di anticipo nella raccolta proprio sulla costa.
Bere il Lupicaia 2001 è dunque una sensazione straniante: siamo in un’altra epoca, non esistevano i social, decisamente rassicurante e conforme ai canoni degli anni ’90 nella fase produttiva, decisamente nuovo millennio per le fasi commerciali seguenti. Era ancora il periodo in cui il legno non era stato così ferocemente messo in discussione e si affacciava appena il tema dei vitigni autoctoni come principale caratteristica identitaria del sorso rispetto al territorio di provenienza. Anzi, il Lupicaia, in questa versione 2001 con un po’ di Merlot e di Pedit Verdot a saldo di un 85 per cento di Cabernet Sauvignon era sin dalla sua nascita, il 1993 per l’esattezza, orgoglioso alfiere dell’impostazione bordolese in salsa mediterranea che ha sonoramente rinnovato la viticultura della costa toscana e, di conseguenza, della viticultura italiana. Fu proprio grazie ai vitigni internazionali che la Toscana trascinò il resto del paese verso un export redditizio, autorevole e non più subalterno alla Francia.
L’azienda, con i suoi 3500 ettari di cui una settantina vitati in quel di Castellina Marittima, non ha bisogno di presentazioni essendo stata la protagonista del rilancio del vino italiano nel suo decennio d’oro e mantenendo la rotta sulla qualità assoluta nel corso degli anni.
Indubbiamente un vino molto ben fatto, nonostante i nostri pregiudizi verso tanti vini così concepiti di quell’epoca alla prova del tempo. Non solo il tappo è perfetto, ma il colore granato è vivo e sin dal primo secondo. Il vino, conservato tutto questo tempo nella sua cassetta di legno in cantina, respira ancora frutta rossa, note balsamiche e di macchia mediterranea in un vago contesto di fumè e carruba. Se proprio volete saperlo, non ho percepito il classico peperone sempre associato didatticamente al cabernet. Al naso il frutto e il legno appaiono in perfetto equilibrio, direi anzi fusi e la scelta dei tonneaux da parte della azienda, rilanciata dal mitico marchese Gian Annibale Rossi di Medelana Serafini Ferri purtroppo scomparso nel 2019, appare da distanza di 23 anni saggia e lungimirante.
Il vino, con il passare dei minuti acquisisce complessità e intensità olfattiva con note di caffè, in parte liquirizia, conserva. Le premesse del naso vengono mantenute al palato dove la freschezza sostanzialmente integra tiene in piedi la beva in maniera autorevole senza il minimo cedimento, spingendo con decisione il sorso in un contesto di morbidezza setosa dei tannini, presenti e di pregio, sino al finale lunghissimo in cui ritornano i ricordi di frutta rossa. Una chiusura che conserva intatta la sapidità del sorso che non ha alcuna concessine piaciona o dolce e che anzi invoglia a ripetere la beva. La bottiglia finisce rapidamente e ci complimentiamo per la nostra tenacia di resistere alla tentazione di aprirla prima: fisicamente parlando, ammesso che il Lupicaia 2001 sta ancora in commercio (lo vediamo quotato sui 220 euro sul web), è al suo zenit.
Un grande vino. Questo è l’epitaffio che lasciamo alla bottiglia vuota.
www.terriccio.it
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