di Stefano Tesi
Doveva essere una sorta di verticale-orizzontale delle annate 2009 e 2019 dei tre grandi vini a base Sangiovese 100% di Felsina, cantina tra le più rappresentative della Berardenga (500 ettari, dei quali 72 vitati), proprio a cavalcioni tra le denominazioni del Chianti Classico e del Chianti Colli Senesi: il Rancia Chianti Classico Riserva, il Colonia Chianti Classico Gran Selezione e il Fontalloro Toscana Igt.
Ma quando eravamo curvi sui bicchieri, impegnati nel discettare sul confronto (in cui, a mio modesto parere, il nerbo dei 2019 si è fatto in generale preferire, seppure non di molto, alla maturità appena velata dei vini più vecchi), ecco spuntare dal cilindro del patron Giovanni Poggiali un Fontalloro 1999 che ha subito messo tutti d’accordo.
Si tratta, come noto, di un’etichetta-bandiera dell’azienda, prodotta sotto la guida di Franco Bernabei fin dall’esordio enoico di Felsina nel 1983 (la tenuta, all’epoca a vocazione cerealicola, era stata comprata nel 1966 dal nonno di Giovanni, Domenico). L’uva di Sangiovese proviene in questo caso da tre diversi vigneti di proprietà ubicati dall’una (Poggio al Sole, versante Chianti Classico) e dall’altra parte (Casalino e Arcidossino, versante Colli Senesi) del confine tra le due docg.
Il nome del vino, spiega Poggiali, può essere spiegato in due modi diversi. Quello più poetico dice che esso derivi dall’antica fonte che si trova nel bosco sovrastante il vigneto di Poggio al Sole, non lontano dalla sorgente del fiume Ombrone, dove i raggi solari provocano suggestivi riflessi di luce dorata. Quella più geografica è che Poggio al Sole è il reale toponimo del vigneto che, però, in loco è chiamato da sempre Fontalloro.
In ogni caso, se a Felsina (e non solo) la 1999 è considerata tra le migliori annate della seconda metà del secolo scorso, la bottiglia che stiamo assaggiando ce lo conferma.
Il colore è integro, compatto, scuro e profondo. Al naso il vino regala un’austerità calda, composta, terragna, oltremodo territoriale e coerente, senza rinunciare però a un guizzo di frutto e di residua freschezza che, a ben pensarci, risultano abbastanza stupefacenti in un rosso vecchio un quarto di secolo. Questa festa saggia, sobria e assennata continua al palato con una solennità asciutta, severamente vellutata, sapida, arricchita da un tannino maturo e da una nota appena polverosa che ravviva il sorso, esaltandone la lunghezza e gli accenni balsamici sparpagliati qua e là.
Che dire? Una bottiglia d’altri tempi? Un grande vecchio?
Direi più che altro una bottiglia che, il tempo, l’ha saputo cavalcare.
Fatto che ci rincuora un po’ tutti.
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