di Stefano Tesi
Per la maggior parte è stata un’opportunità ghiotta, perché assaggiare contemporaneamente tante vecchie e vecchissime annate una accanto all’altra, potendo sceglierle a piacere una ad una seguendo il filo random della curiosità, è un’eventualità più unica che rara.
Per la minoranza si è trattato invece di un’occasione sprecata, perché le circostanze – tutti in piedi con una ventina di bottiglie messe alla rinfusa sul tavolo ed un solo bicchiere a disposizione – non erano quelle ideali per una degustazione approfondita.
Io, razionalmente e non pilatescamente, sto per due terzi con la prima fazione:
nel senso che potersi gustare tutto quel bendiddio con metodo e maggiore agio sarebbe stato forse professionalmente meglio, ma intanto abbiamo potuto farlo e in un’atmosfera inedita, complice e scanzonata (“senti questo”, “no, senti quest’altro”, “e quello l’hai sentito?”) come di rado accade nel nostro mondo un po’ ingessato e formulare. L’esperienza se n’è quindi indubbiamente giovata.
Parlo delle tante etichette di annate dal 2000 al 2015 che quelli del Consorzio hanno deciso di esumare dalla cantina e stappare per i giornalisti in occasione dei festeggiamenti per il 50° del sodalizio dei Colli Orientali e Ramandolo. “Festeggiamenti”, hanno specificato gli organizzatori volendo sottolineare la natura esplicitamente gaudente e informale dell’evento. Il che non ha impedito, è giusto dirlo, gli opportuni approfondimenti su molti vini e altrettanti produttori.
Ma sempre in una cornice rilassata che di sicuro ha aiutato la familiarizzazione pure con le persone e il territorio, complice anche una cena di apertura con diluvio all’Abbazia di Rosazzo vissuta in un clima di allegria contagiosa, giusto appena dopo che Matteo Bellotto, brand ambassador della denominazione e gran maestro di cerimonie, aveva annunciato trionfalmente che “la bora sta portando vie le nuvole”.
E’ però nel “walking around the table tour” (la definizione è mia) del giorno dopo che mi sono imbattuto, dopo provvidenziale gomitata d’avviso del collega Marco Sciarrini, che ringrazio, in questo Tocai Friulano 2006 di Valentino Butussi, uno di quei vini infinitamente cangianti nei quali ti perderesti volentieri perché non finiresti mai di assaggiarlo, nella certezza di imbatterti ogni volta in qualcosa di nuovo.
Il colore, tra l’oro vecchio e l’ambrato, faceva già presagire cose buone, ma è stato il naso a dare il via alle danze con una sequenza in stile timelapse di sale grosso, chiglia di barca, salmastro, alghe e battigia, con risacche (passatemi se continuo con la metafora marinara) di alga e una acuta coda finale di cera di miele. Il tutto proseguito in bocca con un sorso ampio, di grande profondità e finezza, etereo e tuttavia mai ingombrante, sapido ed agile, di un’eleganza aristocratica che si rammenta e ti fa rimpiangere di non averne più a disposizione.
Insomma, se anche lì fosse piovuto, sarebbe di nuovo valsa la pena di bagnarsi fino al midollo pur di restare con la bottiglia in mano.
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