di Andrea Petrini
Nel mondo del vino non ci sono tanti punti di riferimento ma, se parliamo di storicità, non possiamo non citare Ruffino, azienda vitivinicola fondata nel 1877 a Pontassieve, vicino Firenze, che da oltre cento anni è sinonimo di grandi vini di Toscana come, ad esempio, il Brunello di Montalcino Greppone Mazzi, il pluripremiato Modus e, soprattutto, il Chianti Classico Riserva Ducale e Riserva Ducale Oro, vera e proprio “cult wine” che ha consolidato l’immagine chiantigiana in tutto il mondo.
Qualche tempo fa a Roma, per salutare il debutto ufficiale della nuova etichetta del Chianti Classico Riserva Ducale Oro Gran Selezione, l’azienda, con la presenza di Sandro Sartor, presidente e amministratore delegato di Ruffino, si è tenuta una storica verticale di Riserva Ducale Oro, attraverso 5 decadi, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Un’etichetta, come già scritto, che nel corso degli anni è diventata uno dei simboli di Ruffino. Se la creazione del Chianti Stravecchio, all’inizio dello scorso secolo, consentì all’azienda fondata dai cugini Ilario e Leopoldo Ruffino di diventare fornitore ufficiale della Casa Reale Savoia, la nascita della Riserva Ducale nel 1927, e successivamente quella della sua evoluzione “Oro” nel 1947, hanno consentito all’azienda di Pontassieve di poter custodire e tramandare sino ad oggi un pezzo importante della storia della viticoltura e dell’enologia toscana e italiana.
La degustazione, che ha visto protagoniste sette annate di Chianti Classico Riserva Ducale Oro – 1977, 1982, 1988, 1996, 2005, 2015 e 2018 – è stata condotta da Daniele Cernilli, affiancato da Gabriele Tacconi, enologo di Ruffino.
Per la rubrica InvecchiatIGP ho scelto di parlare dell’annata 1982, un millesimo che per la sua integrità gusto-olfattiva mi ha lasciato davvero di stucco.
Questo Chianti Classico Riserva Ducale Oro (75% sangiovese, 10% canaiolo, 10% malvasia e 5% colorino) è stato vinificato in tini di cemento vetrificati per circa 2 settimana a cui è seguita una macerazione post-fermentativa sulle bucce per altri 7 giorni. Al termine della malolattica, il vino ha trascorso un primo periodo di affinamento di almeno 12 mesi in botti grandi di rovere di Slavonia da 80hl, a cui ha fatto seguito un ulteriore affinamento in tini di cemento vetrificati. Figlio di una annata abbastanza mite, il vino, come scritto, spiazza il degustatore per la sua giovinezza sensoriale che, affatto, fa trapelare che sono passati ormai oltre 40 anni dalla vendemmia. Naso ancora impressionante per complessità ed eleganza. Si susseguono percezioni di the nero, timo, frutta rossa succosa, prugna, legno di sandalo fino ad arrivare a note di incenso e tamarindo. Al sorso il vino ha ancora energia, vigore, avvolgenza e, grazie ad una spiccata acidità fornita anche dalla presenza di malvasia bianca, ha ancora una schiena dritta e una persistenza che dall’agrume rosso vira verso percezioni speziate e di erbe aromatiche.
La chiusura dell’articolo la lascio alle parole di Sartor che, al termine della splendida verticale, ha così commentato: “Stasera abbiamo avuto la fortuna di poter apprezzare, a distanza di molti anni dalla loro nascita, vini che sono stati realizzati dal lavoro di persone che erano in azienda prima di noi. Mi piace pensare che a distanza di oltre 40 anni si possa ancora parlare di questi vini perché qualcuno è stato in grado di custodire i terreni e l’ambiente nei quali vengono prodotti”.
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