di Luciano Pignataro
Ultimo di nove figli di famiglia contadina. Simone Padoan è il fondatore della nuova pizza italiana, anzi, per essere precisi, della pizza italiana perché prima del suo ingresso in campo esisteva solo lo stile napoletano. Una figura importante, centrale, del campo enogastronomico contemporaneo. Ma le sue origini contadine gli mantengono, ben salda, la testa sulle spalle.
«Non ho intenzione di aprire a Milano. Non dico che sia sbagliato farlo e non critico chi decide di andare a lavorare in questa bella città, ma la mia è sempre stata una piccola dimensione e tale resterà. Il mio lavoro mi basta per pagare il mutuo e avere soddisfazione. Sono un ragazzo di provincia, di campagna, ho l’età giusta per capire che ho trovato la mia giusta dimensione. Forse, avessi vent’anni non parlerei così».
Detta così sembri un prudente conservatore, in realtà hai innovato tanto. Come è nata questa necessità di cambiare passo?
«Non è avvenuto in un giorno, ma è stato un processo lungo. Quando abbiamo aperto la pizzeria era il 1994, ed eravamo il classico locale, con la lista classica e qualche proposta di stagione. La stessa pizza con un solo impasto per diversi condimenti».
Tutto filava alla perfezione, insomma.
«Mica tanto. Attorno a noi nascevano grandi realtà, noi eravamo un piccolo locale e faticavamo a stare al passo con gli altri. Inoltre i localoni avevano una grande varietà di proposte, dalla pizza alla cucina e noi eravamo in dubbio su come muoverci».
Poi
«Poi mi sono dato la prima risposta. Anche in presenza di grandi numeri e locali polifunzionali, ci sarà sempre qualcuno che avrà voglia di mangiare una buoan pizza. Decidemmo allora di restare uguali inserendo, a partire dal 2000 un modo diverso di mangiare. Mantenendo il menu fisso chiedevamo a qualche tavolo se volevano provare il degustazione e ci accorgemmo che l’idea piaceva. Poi iniziammo a fare speciali serate il mercoledì con i produttori che venivano, spiegavano i loro prodotti e noi preparavamo pizze speciali. L’idea ci venne, inutile negarlo, dal mondo del vino che da noi è molto importante. Io ho un cognato che lo produce e seguii i suoi consigli. Insomma nella vita ci vuole anche un po’ di fortuna: vivere vicino Verona, lavorare a due passi dall’autostrada in un provincia negli anni del boom mi ha aiutato molto».
Dunque piano piano tutti i tavoli divennero a degustazione e tutti i giorni erano dei mercoledì.
«Sostanzialmente si. Abbiamo mantenuto il menu fisso fino a quando abbiamo capito che tutti venivano per il degustazione, alla ricerca di nuove proposte e di un prodotto sano».
Quando hai iniziato ad essere conosciuto?
«Il primo giornalista che ha parlato di me è stato Luigi Cremona, direttore delle guide del Touring. Ma il successo è arrivato nel 2005 dopo un passaggio a Matrix di Enrico Mentana. Allora la tv faceva davvero la differenza e dopo tutti vollero venire a conoscerci, non c’erano ancora i social».
Sei stato il pioniere in un mondo che è cambiato
«Sì, ma se non ci fossi stato io sicuramente qualche altro avrebbe fatto lo stesso percorso. Il mondo è davvero cambiato, oggi i clienti sono preparati, si appassionano alle proposte. E il pizzaiolo moderno deve saperlo spiegare. Noi in Veneto abbiamo avuto il vantaggio di non dovere fare i conti con la tradizione napoletana, siamo stati più liberi nella ricerca di impasti, modi di servire, farciture, completamente originali. Un po’ come i produttori di birra italiani, abbiamo avuto un prateria su cui correre. Certo, nell’immaginario collettivo la pizza resterà sempre napoletana, ma noi abbiamo conquistato il nostro spazio e oggi si può scegliere tra diverse proposte».
Qual è la cosa che ti soddisfa di più dopo tanto lavoro?
«Il fatto che abbiamo dato dignità al mestiere di pizzaiolo».
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