INTERVISTA | Heinz Beck: abbiamo rivoluzionato la cucina d’albergo italiana. Il futuro della gastronomia? Ambiente e salute

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Heinz Beck

Heinz Beck

di Luciano Pignataro
Finale di stagione per Heinz Beck e la sua fantastica brigata della Pergola dell’Hotel Hilton a Roma. Il baffetto con la punta all’insù è l’unico vezzo che si concede il panzer nato a Friedrichshafen il 3 novembre 1963: il caldo incalza, gli ospiti mangiano sulla terrazza sul Monte Mario da cui si gode la vista di tutta Roma. Finalmente un cuoco in vacanza in agosto.
Dove andrai a riposarti Heinz?
«Beh, si, noi stiamo in città, siamo un tristellato Michelin aperto quasi tutto l’anno, un mese di riposo è il minimo per reggere questi ritmi pazzeschi, ogni sera tutto pieno, così da almeno dieci. Andrò, come sempre in agosto, insieme a mia moglie Teresa per fare un po’ di mare e poi in un paese del Mediterraneo. A Natale invece la visita in qualche città del Nord Europa a vedere musei e mostre e a vivere l’atmosfera natalizia».
E da bambino come trascorrevi le vacanze?
«La mia è una famiglia di gioiellieri e io sono nato vicino al lago di Costanza. Dunque la nostra estate era semplice, si passava in campagna e al lago giocando. Sognavo di fare il pittore e di studiare belle arti ma mio padre Hermann era una persona concreta e pratica e non approvava questo tipo di indirizzi. Così la passione mi è rimasta, ma per dare una risposta precisa decisi di iscrivermi all’istituto alberghiero di Passau».
Come mai proprio questo indirizzo di studio?
«Perché dopo un anno di scuola subito si andava a lavorare facendo un tirocinio di altri quattro anni. Quindi avevi la possibilità di inserirti subito nel mondo del lavoro».
Da Passau a Roma.
«Nel 1985 lavoro a Monaco di Baviera per una ditta di catering con una stella Michelin. L’anno successivo divento chef de partie al Colombi Hotel di Friburgo. Dopo tre anni vado a Monaco dal tristellato Tantris. Nel 1991 sono il sous-chef al Tristan di Mallorca (Spagna), due stelle, e poi ancora in Germania alla Residenz ad Aschau, allora due stelle. Nel 1992 ottengo la qualifica di “Maestro di Cucina” alla scuola di Altötting Alzgern.. Infine, nel 1994 l’arrivo a Roma».
E da allora non ti sei più mosso di lì.
«Incredibile ma vero. All’inizio pensavo di stare solamente un paio di anni. Venni perché Roma è bellissima, l’Italia è fantastica e perché non conoscevo nulla o quasi della cucina italiana se non quello che all’epoca arrivava all’estero».

Tra l’altro in Italia non c’era proprio l’abitudine di mangiare in un ristorante di albergo.
«Niente, è una moda che abbiamo lanciato noi e tra mille difficoltà. Lo abbiamo potuto fare grazie alla clientela del nostro albergo e alla presenza di tanti stranieri in città perché non era nella mentalità italiana entrare in un albergo solo per mangiare e del resto nessun hotel all’epoca aveva fine dining».
Come impostasti la tua cucina?
«Credo che ogni cuoco debba trovare il giusto equilibrio tra il luogo in cui lavora e la propria creatività. Solo così si riesce a fare una cucina personale efficace, capace al tempo stesso di piacere ai clienti e di non restare seduta su quello che già si conosce. Un altro aspetto molto importante secondo me è cogliere le mode ma non farsi travolgere dalla moda. Io sono cresciuto negli anni di Adrià, certamente ho avuto molte sollecitazioni da questo movimento gastronomico, ma non ho mai pensato di importarlo copiando il loro stile in Italia. Un vero cuoco non può limitarsi a copiare».
Gli anni più intensi?
«Tra il 1998 e il 2002. Arrivarono di colpo la prima stelle Michelin, poi mi sposai con Teresa e subito dopo la seconda stella».
Sino alla terza nel 2006.
«Inutile negarlo, fu una soddisfazione incredibile, anche perché ci arrivammo convinti con due grandi squadre, una in cucina e una in sala. Da allora abbiamo sempre difeso con successo questo risultato e ne andiamo molto fieri».
Quando tu hai iniziato non esistevano Facebook, i cellulari erano agli esordi e soprattutto non c’era Masterchef.
«Vero, ma non bisogna rimpiangere il passato perché ciascuno di noi è figlio del suo tempo. L’importante è accettare le cose buone che ogni cambiamento porta sempre con se».
Però è anche vero che negli ultimi tempi si è sviluppata una visione distorta di questo lavoro. Tu cosa consigli ai giovani?
«Molto semplice: studiare, studiare e ancora studiare».
Cosa studiare?
«La tradizione, le tecniche e i prodotti. Solo così si può creare qualcosa di originale perché le idee non cadono dall’alto».
In che direzione sta andando la cucina?
«Verso l’attenzione alla salute e all’ambiente. Noi abbiamo iniziato questo discorso nel 2000, da allora sono stati fatti molti passi in avanti e adesso in tanti ne parlano».


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