Una società svizzera di biotech ha brevettato e commercializzato un metodo naturale e rivoluzionario per eliminare la principale causa di questo disagio con il quale ci si sveglia dopo aver alzato un po’ il gomito: i solfiti.
Una soluzione che potrebbe anche mettere fine al dibattito che divide in modo molto aspro, come al solito, il mondo del vino, con l’avanzata di un modello naturale e biodinamico che punta a ridurre la quantità di questo conservante, perché di questo di tratta, decisamente tossico per l’uomo.
Secondo gli specialisti, infatti, la soglia massima è di assunzione non deve superare 0,7mg per chilo di peso. Basta il vecchio quartino per superare questo limite di guardia. La legge impone ai produttori di indicare in etichetta la quantità di alcool e la presenza di solfiti quando si superano i 10 mg per litro.
Ci sono numerose pratiche per limitare la presenza di solfiti nel vino, ma quella di Integrapes, il marchio di commercializzazione del prodotto, già adottata da 40 cantine in tutta Italia, è sicuramente la più pratica perché consente di gestire la vinificazione in modo tradizionale.
In sostanza si tratta di diluire tannini estratti dai vinaccioli in un litro di acqua dinamizzata e usare il composto ogni dieci ettolitri di vino in tre fasi differenti: vinificazione, prima o dopo la fermentazione malolattica e, infine, nella fase di imbottigliamento, considerata la più delicata, soprattutto in passato, per i rischi di ossidazione.
L’ossigeno, per il vino come per tutte le sostanze organiche, è al tempo stesso alleato e nemico. Il processo di ossidazione consente l’evoluzione ma al tempo stesso segna l’inizio del processo degenerativo con la perdita di acidità. Per questo i solfiti si producono naturalmente nel corso del processo di vinificazione, ma al tempo stesso è sempre necessario aggiungerli per essere sicuri della tenuta sui tempi lunghi.
I risultati di questo protocollo, spiega il responsabile tecnico per l’Italia, l’enologo Maurizio de Simone, campano da sempre attento alla biodiversità e alle tematiche legate alla viticoltura ecocompatibile, sinora sono strabilianti: alla fine non si supera mai la soglia di 4 mg per litro, cioé quella prodotto naturalmente, e i vini, bianchi e rossi, appaiono assolutamente integri.
Ma cosa cambia agli effetti del gusto? Abbiamo provato in un panel organizzato all’Enoteca La Botte di Casagiove due campioni di Falanghina del Taburno ottenuti dalla stessa uva vinificati in modo identico, l’uno con l’aggiunta di solfiti e l’altro con il metodo Integrapes. Dobbiamo dire che nel primo caso eravamo alla presenza del solito stress post-imbottigliamento, con naso ricco di aromi fermentativi e acidità scissa al palato (ossia distinta dal corpo del vino). Il vino senza solfiti aggiunti, invece, appare già composto ed equilibrato, con sentori di buccia e di frutta decisamente in primo piano. Dunque nella prima fase di vita del vino è decisamente migliorativo.
Ora il punto a cui non si può rispondere è la resa nel tempo. Alcuni vini, come il Fiano di Avellino, il Riesling o lo Chardonnay, guadagnano con il passare degli anni un immenso patrimonio olfattivo e gustativo che li colloca nel campionato dei grandi vini da invecchiamento. Per non parlare dei rossi da aglianico, nebbiolo, gaglioppo. Questo metodo regge nel tempo o può essere utilizzato solo per i vini di beva immediata (i rosati, i rossi beverini, i bianchi come l’Asprinio)?
Per rispondere dovremo aspettare. Ma non c’è dubbio che la ricerca biotech sembra aver comunque sciolto il nodo gordiano creato da un dibattito sempre più acceso e feroce con accuse di avvelenamento rivolte alle grandi aziende e di fare vini che puzzano alle piccole. Una pillola, un litro di acqua dinamizzata e, voilà, il solfito non c’è più. E neanche il mal di testa.
Pubblicato oggi in prima sul Mattino
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