di Raffaele Mosca
Uno scenario veramente suggestivo: una piana stretta tra le pareti di roccia delle Dolomiti, sulle quali si arrampicano i boschi e antichi manieri compaiono qua e là.
Ci si aggiunge la pergola trentina – sistema d’allevamento della vigna che crea immense distese verdi – ed emerge tutto il fascino di un territorio oggettivamente bellissimo che, però, non è mai stato trattato come si deve. Il clima particolarmente mite per queste latitudini rende la Piana Rotaliana estremamente fertile, ed è per questo che i viticoltori della zona hanno sempre preferito i grandi numeri alla qualità. Per decenni la produzione è stata completamente monopolizzata dalla grandi cooperative fondate nell’epoca del dominio austroungarico, che tutt’oggi immettono in commercio milioni e milioni di bottiglie a prezzi molto bassi.
Per fortuna, qualcosa si sta muovendo negli ultimi anni: la percezione del Teroldego rotaliano – vino spesso tacciato di rusticità e scarsa personalità – è cambiata con l’exploit di aziende come Endrizzi, Dorigati, Foradori, che hanno riscosso un successo non indifferente sui mercati internazionali. Oggi, però, ci troviamo davanti ad un’ulteriore fase di questa rinascita qualitativa: un gruppo di vignaioli emergenti sta mettendo in atto la cosiddetta “Teroldego Revolution”.
Alla seconda edizione di Incontri Rotaliani, evento organizzato da Civiltà del Bere con il consorzio di tutela e gli enti turistici locali, abbiamo avuto di scoprire il Teroldego in verticale, orizzontale e comparazione-gemellaggio con i vini della Rioja. L’idea di ospitare i vignaioli di un altro territorio era già stata introdotta nella prima edizione, che aveva visto la partecipazione di alcuni produttori di Borgogna con i loro Pinot Noir, vicini alla varietà trentina sotto il profilo genetico (più precisamente, il Pinot Nero è genitore del Teroldego insieme alla Durezza). Quest’anno, invece, alla base dell’accoppiata c’è una situazione produttiva analoga: proprio come la Piana Rotaliana, la Rioja vive una fase di transizione, in cui le aziende più giovani si scontrano con quelle storiche, nella speranza di scardinare un modello incentrato sulla concentrazione a tutti i costi e sugli affinamenti lunghissimi in legno molto tostato che rischia di diventare obsoleto.
“ Ci troviamo in un momento delicato in cui dobbiamo iniziare un percorso nuovo – spiega Francesco De Vigili, titolare dell’omonima azienda, in un intervento alla conferenza di Incontri Rotaliani – noi abbiamo una DOC che ci permette di produrre fino a 170 quintali d’uva per ettaro. Il 40% della produzione, però, viene declassata. Sostanzialmente produciamo il doppio di quello che sarebbe un quantitativo ideale per fare vino di qualità, ma poi rinunciamo a una parte per evitare il crollo dei prezzi. Quale senso economico ha questa situazione?”. La prima missione da portare a compimento nell’ambito di questa revolution è proprio una riduzione delle rese massime consentite, che si renderebbe necessaria a maggior ragione se – come già ipotizzato – la DOC della Piana Rotaliana diventasse una DOCG.
Altro passo fondamentale per i vignaioli è la zonazione, che in quest’areale non è ancora partita. “Dobbiamo mettere da parte l’idea imperante secondo la quale tutto il Teroldego della rotaliana è uguale – afferma de Vigli – In quest’area di 400 ettari abbiamo delle diversità enormi. Nelle masterclass abbiamo messo in evidenza le differenze che intercorrono tra un Le Fron di Mezzocorona, un Sottodossi di Mezzacorona, un Pini di San Michele all’Adige. Necessitiamo di un sistema che permetta di esaltare queste caratteristiche, onde evitare appiattimenti e uniformazioni verso il basso. Non lo dico con spirito politico, ma con spirito critico, perché non possiamo fare una DOCG con un Teroldego rotaliano generico da 170 quintali ettaro. Fino a quando non creeremo una base solida, fondata anche sulla distinzione dei singoli territori, non riusciremo mai a incidere sui consumatori e far capire qual’è il vero valore del nostro vitigno”.
Ad illustrare il lavoro che stanno facendo gli emergenti della Piana Rotaliana ci pensano Alessandro Torcoli, direttore di Civiltà del Bere, e Gabriele Gorelli, primo master of Wine Italiano. “ In questa zona, come nella Rioja, i giovani stanno cercando di produrre vini più in linea con le tendenze del mercato – spiega Gorelli -Teroldego e Tempranillo si prestano anche alla produzione di quelli che gli americani chiamano juicy red wines (vini rossi succosi). Sono vini, questi, che si ottengono con vinificazioni a grappolo intero e macerazioni sulle bucce più brevi, in modo da esaltare il frutto, la freschezza, la facilità di beva”. In effetti i due vini d’entrata della batteria – Tonalite di De Vigili sul fronte trentino e Sopiar di Bodega Moraza su quello spagnolo – staccano tutti gli altri e mettono subito in mostra una leggerezza, una souplesse degli aromi e del sorso che li rende antitetici rispetto alle declinazioni più classiche, molto marcate dal rovere nel caso del Tempranillo e segnate da dolcezze legate a una quota di uve sovramature nel caso del Teroldego “ Teniamo sempre a mente che il Teroldego è parente stretto del Pinot Nero – aggiunge Gorelli – la nuova generazione sta enfatizzando proprio questa parentela”.
La degustazione
Teroldego Rotaliano
De Vigili – Tonalite 2019
8-10 giorni di macerazione e poi 10 mesi in barrique per un vino scorrevole e spigliato, che sa di pepe e bacche nere, erbe aromatiche e violetta. E’ a metà strada tra Beaujolais e Borgogna in termini di succosità e scorrevolezza del sorso; il tannino appena polveroso dà grinta e forza, frutto e fiore la fanno da padrone nel finale coerente e disinvolto. E’ l’archetipo del Teroldego della New Wave: mai troppo semplice, ma fluido e dinamico, senza morbidezze o legno in eccesso.
Roberto Zeni – Lealbere 2019
Qui l’affinamento è solo in acciaio e il vino tira fuori una commistione di aromi dolci – prugna, visciolata – e tracce erbacee e vinose. L’ingresso è morbido, carico di frutto, ma il tannino leggermente ruvido dà subito sostegno e la nota erbacea rinfresca il finale appena ammandorlato. Un po’ rustico, ma molto beverino.
De Vescovi Ulzbach – Le Fron 2018
Cambio totale di registro: Le Fron è un Cru storico, le vigne hanno da 60 a 100 anni, l’affinamento in cemento e ceramica compatta un vino più profondo e dettagliato dei precedenti, pepato e selvatico in apertura; poi carnoso di ciliegia, melagrana e giuggiola. Il tannino è il più fine della batteria e un’idea balsamica allieta la progressione golosa e di buona profondità.
Martinelli – Teroldego Rotaliano 2016
Esplosione di dolcezza travolgente al naso: sciroppo di more e visciolata, caffè, liquore alla menta. Per fortuna il sorso gioca su sensazioni diverse, con una parte verde che smorza la massa, pepe ed erbe sul fondo e un piglio acido discreto. Ha più polpa, più struttura dei precedenti, ma rimane comunque integro ed equilibrato.
Rioja
Bodegas Moraza – Soplar 2020
La Rioja Alta che guarda Morgon e Fleurie: agricoltura biodinamica, fermentazione spontanea, solo 4 mesi in acciaio e solo 12 gradi alcolici. Ne viene fuori un vino appena ridotto in apertura, poi croccante di ribes e violetta, mosto fresco, pepe verde. Ha un tannino molto delicato, tanto frutto e una progressione dinamica e soave, tonica d’agrume rosso nel finale semplice e coerente.
Bodegas Pujanza – Hado 2017
Qui, invece, l’affinamento avviene in barrique francesi, ma è molto breve per gli standard della zona (12 mesi). Il naso è decisamente più classico: visciola, prugna, cioccolato e caffè, cenni balsamici e di radici. Il sorso è un po’ più robusto e cremoso, ma comunque giocato in sottrazione, con un tannino incalzante e un discreto nerbo acido-sapido di fondo. Vino di compromesso, non estremo come il precedente, ma moderno; forse è quello che ha più assonanze con i quattro Teroldego.
Marques de Caceres – Crianza 2017
Dai vigneron passiamo a un’azienda enorme – più di sei milioni di bottiglie prodotte annualmente – che fa vini molto classici. Questo è il Rioja di entrata e sta 12 mesi in barrique francesi per il 60% e americani per il 40%. Il profumo è di more, mirtilli neri terrosi, cioccolato amaro e chiodo di garofano, grafite, moca. In bocca entra morbido, con ampi rimandi alla prugna e alla marasca, tracce tostate da rovere che smussano gli spigoli e tannini molto vellutati. Sul finale emerge più chiaramente la spalla acida, ma lo sviluppo, nel suo insieme, tende all’opulenza e alla rotondità.
Gomez Cruzado – Rioja Reserva 2014
E arriviamo alla Reserva, l’emblema della produzione riojana. Questa in particolare sta 18 mesi di barrique francese e altrettanti mesi in bottiglia. Dispensa aromi di vaniglia e tabacco mentolato, boysenberry e humus. E’ massiccio, impetuosamente fruttato e tostato, con rintocchi speziati, una discreta vena acida di fondo e un cenno vegetale che rinfresca appena la progressione. Non ha assonanze con i quattro vini di questa masterclass, ma ne ha con un paio di vini assaggiati nella masterclass successiva: quella sul Teroldego invecchiamento, della quale parleremo nella prossima puntata.
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