L’inchiesta sulla Pasta di Report fa discutere, come sempre. Una inchiesta che, come è accaduto per la pizza e il caffè, rigira il coltello dentro qualche nervo scoperto. Questa estate Bernardo Iovene ha percorso in lungo e largo la Penisola mettendo a punto 40 minuti da non perdere sulla pasta italiana, un lavoro molto ben articolato come al solito, pieno di cazzimma ma professionale, che ci spinge a fare alcune riflessioni a margine.
Anzitutto di cosa ha parlato? Usiamo per comodità lo stesso lancio della trasmissione.
La pasta rigata, scelta dal 90% degli italiani, vince sulla liscia che è agli ultimi posti nelle vendita tra i formati di pasta. Apparentemente è una questione di gusto, ma gli esperti, i maggiori chef e gli stessi pastai affermano il contrario. La pasta liscia è più buona e trattiene il condimento più della rigata se trafilata al bronzo ed essiccata lentamente. Invece gli italiani, che vantano il primato mondiale del consumo, mangiano una pasta trafilata al teflon, con tempi di essiccazione veloci. L’inchiesta inoltre tratterà della provenienza dei grani e della trasparenza delle etichette: l’Antitrust ha emanato cinque provvedimenti sui marchi nazionali di pasta De Cecco, Divella, Cocco, Lidl e Auchan. Sulle loro etichette c’erano richiami all’italianità del prodotto in bella vista mentre la provenienza del grano da paesi Ue e non Ue appariva con caratteri microscopici nel retro. Infine Bernardo Iovene è stato a Gragnano dove ai piccoli pastifici è stato vietato l’uso della parola artigiano sulle etichette.
1-La guerra dei due mondi, penne rigate o lisce?
Prendendo spunto da quanto avvenuto durante il lookdown, ossia gli scaffali di pasta vuotati furiosamente nei primi giorni con la sola eccezione dei pacchi di penne lisce, Bernardo Iovene ha presentato i due partiti: da un lato il popolo dei consumatori che preferisce le penne rigate (che io aborro perchè mi ricordano le penne all’arrabbiata della mensa universitaria), dall’altro il mondo degli chef (Iaccarino, Esposito, Scarallo) che fa del consumo della pasta liscia un simbolo di napoletanità, salvo poi scoprire, girando tra la gente, andando dai supermercati sino ai locali del lungomare partenopeo, che proprio a Napoli il consumo di penne rigate è prevalente.
Il motivo? Secondo me non esce bene come dovrebbe dal filmato anche se si potrebbe intuire vedendo i seguito: la maggior parte degli italiani consuma pasta industriale a essiccazione rapida e dunque è chiaro che in questo caso, come dicono gli intervistati, la penna rigata trattiene meglio i sughi. Se passiamo invece a lunga essiccazione, è chiaro l’inverso. Che nella cottura quella rigata presenterà zone di scottura rispetto a quella liscia. Ed è questo dunque il motivo per cui i cuochi stellati che usano pasta a lunga essiccazione preferiscono quella liscia mentre la gente comune, e i ristoranti turistici di battaglia, consumano quella rigata.
2-Ma alla fine, la pasta a lunga essiccazione è sempre meglio di quella a breve essiccazione?
Questo interrogativo resta ai margini, anche se una lettera di grandi marchi letta nel finale di Sigfrido Ranucci spiega che dal punto di vista nutrizionale non c’è alcuna differenza scientificamente provata. In realtà noi pensiamo che sia una questione di uso della pasta. Nel senso: certamente una Ferrari è meglio della mia 500XL, ma se devo andare lungo via Marina, lascerei, avendola,la Ferrari in garace usando la Fiat. In alcuni usi la pasta artigianale, usiamo questo termine per convenzione, è sicuramente meno conveniente di quella indusstriale. Un esempio classico è la frittatina di pasta napoletana che con le paste artigianali a lunga essiccazione diventa un mappazzone immangiabile. Ma, volendo estendere il ragionamento, nei sughi di pesce o con i frutti di mare molto meglio uno spaghetto a essicazione media sia per la gestione dei tempi di cottura, sia per il NON RILASCIO di amido che spesso rovina il sapore del mare.Ma anche per lo spaghetto al pomodoro bisogna sapere usare la pasta a lunga essiccazione perchè spesso i cuochi facendo l’ultima parte della cottura nel pomodoro “imbiancano” la salsa.
Dunque anche in questo caso, ci vuole un atteggiamento laico, pratico, prima di scegliere.
3-Artigianale o Industriale?
Questa è l’eterna lotta tipicamente italiana fra grande (cattivo, di scarsa qualità e anche un po’ imbroglione) e piccolo (buono, di altà qualità e onesto). Se vogliamo spaccare il capello in quattro, in realtà non c’è una definizione giuridica dei due termini nel mondo della pasta ma, a ben vedere, neanche nell’evoluto mondo del vino quando parliamo di vini naturali. Non esiste una definizione giuridica di artigianale a meno che, questa passatela ad un vecchio marxista non pentito, non si usi la definizione di Marx, appunto, in cui è artigiana l’identificazione del soggetto produttore con l’oggetto prodotto a prescindere dai tempi di produzione imposti dal mercato. Vabbè, metto anche la formuletta dei Grundrisse: M-D-M e non D-M-D. In cui M sta per merce che produco per ricavare denaro che mi serve per comprare altra merce e non danaro che investo in un processo produttivo per fare più danaro. Siamo convinti che questa seconda logica non appartenga anche ai piccoli pastifici? Penso proprio di no, magari saranno d-m-d minuscolo e non maiuscolo :-)
Per dirla più banalmente e biblicamente, nessuno è innocente.
Personalmente credo che l’industria della pasta sia, nel suo complesso, una grande eccellenza italiana con picchi di altissima qualità e alcune linee, anche di grandi marchi, assolutamente affidabili. Mi illudo di vivere in un paese in cui piccolo e grande diventino complementari nell’agroalimentare perchè nel mondo globalizzato hanno entrambi l’uno bisogno dell’altro sia sul piano della comunicazione che in quello commerciale. Il grande marchio apre la strada, fa conoscere il territorio. Il piccolo serve all’appassionato che vuole approfondire e scoprire andando più a fondo. In questo quadro se il grande dice esisto solo io e il piccolo accusa il grande di fare imbrogli si può aprire una inchiesta partendo subito dall’ipotesi “omicidio suicidio”.
4-La provenienza dei grani e la timidezza dei grandi pastifici
Un po’ per le innumerevoli porcate fatte negli anni ’60 e ’70 dalla grande industria, un po’ per il senso comune dei consumatori rovesciato anche grazie a movimenti come Slow Food, oggi la comunicazione dei grandi marchi si deve travestire. In tre decenni siamo passati da un opposto all’altro, prima ogni cosa doveva essere o sembrare industriale così si usa il termine Centrale del Latte quasi per garantire la modernità e la bontà del prodotto. Ora tutto deve essere Mulino Bianco.
Bisogna invece fare, senza timidezze, una operazione di trasparenza e verità: il grano italiano basta per coprire il nostro fabbisogno di appena quattro mesi l’anno di consumo. Nel 2020 la produzione nazionale di grano duro avrebbe registrato nel 2020 un volume produttivo di circa 3,9 milioni di tonnellate, in contrazione del 2,5% rispetto alla produzione 2019 stimata in circa 4 milioni di tonnellate, a fronte di un fabbisogno dell’Industria molitoria superiore a 5,8 milioni di tonnellate. Che diventano 11 milioni se parliamo anche di grano tenero.
Il punto vero dunque non è da dove viene il grano, o meglio, non solo, ma la sua qualità e la sua aderenza ai criteri normativi italiani di tutela della salute del consumatore, magari non Ogm, ancora proibiti in Europa. Noi italiani siamo i primi broker al mondo di grano ed è una qualità, non una cosa da nascondere. Quindi quando Bernardo Iovene va a beccare in minuscolo Ue /non Ue relativo alla produzione di grano ottenuto per fare la pasta non solo evidenzia un messaggio rilevato falsificante dall’Antitrust ma secondo me, ed è peggio, disvela una timidezza comunicativa assurda dei grandi pastifici. Perchè se io, pastificio, mi sbatto per avere i migliori grani della California piuttosto che dal Canadà, perchè non dirlo chiaramente, magari facendo vedere questi campi con un Qrcode? Solo perchè gli uffici marketing sono pigramente fermi alla narrazione del piccolo è bello? Ma così l’impressione finale è decisamente peggiore perchè si dà la sensazione di voler nascondere qualcosa.
Con i grandi mezzo di cui dispongono, i grandi pastifici italiani potrebbero fare addirittura opera di educazione alimentare invece di vivere una subalternità culturale e trasmettere sensi di colpa privi di riscontro. Il vero capitano di industria crea il mercato non lo subisce, proprio come un vero politico deve avere una visione non inseguire i sondaggi…
5-La questione del Consorzio di Gragnano
Il servizio di Report affonda la lama sul disciplinare del Consorzio che ha abbreviato da sei a quattro ore i tempi di essiccazione. Qui è una narrazione già vista, soprattutto al Sud dove c’è sempre qualche duro e puro che si distanzia, un po’ per posizionamento narrativo commerciale, un po’ per faide di paese come nel caso di Gragnano dove tutti odiano tutti al punto che non riescono ad odiarsi nemmeno uno alla volta nonostante siano, tutti, sotto una pioggia di soldi grazie al marchio Igp. Avviene nel settore della mozzarella di bufala dove il consorzio ha chiesto l’uso del latte congelato. Insomma, una volta trovato il filone aurifero, c’è sempre l’idea che non ci si riesce mai ad abboffare e la tendenza, inutile negarlo, è ad abbassare sempre di più l’asticella. Sul piano politico chi è fuori accusando di ogni nefandezze i consorzi alla fine fa come quelli che sputano in alto finendo per sputarsi in faccia. Non capire che nel mondo globalizzato solo un marchio comune riconosciuto da un ente pubblico, in questo caso l’Europa, tutela in un mercato internazionale senza regole è una prova di miopia strategica e purtroppo molto diffusa in chi arriva al salumiere sotto casa. Al tempo stesso i grandi devono capire che se si mantiene alta l’asticella è possibile creare valore aggiunto non dall’aumento della quantità, ma dal contenuto stesso del prodotto. Purtroppo la prima è una scorciatoia che quasi tutti finiscono per imboccare perchè il precetto bocconiano è crescere, crescere, crescere, sempre e comunque, rispetto all’anno precedente. E questo è difficile per un mercato maturo.
Eppure, questa la considerazione finale, Gragnano resta l’unico distretto industriale di pasta in Italia e nel Mondo che ha un disciplinare, giusto o sbagliato, a cui ci si deve attenere per potersi fregiare del marchio. C’è differenza di essiccazione e di prezzi finale al consumatore, succede ovunque, anche nello Champagne. Sono gli unici produttori di pasta che si sottopongono a controlli ulteriori a quelli previsti dalla legge per tutti gli altri. Per tutto il resto del Paese, il consumatore deve credere a quello che gli racconta il marchio. A Gragnano si sa che ci sono delle regole approvate prima in Italia e poi in Europa. Ed è questo il valore aggiunto da difendere, anche da parte di chi è fuori per motivi personali, non perchè è più bravo.
E ora godetevi Report. Anzi, come dice Ranucci, Report può cominciare…
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