di Stefano Tesi
E’ buffo come il luogo comune delle “bottiglie dimenticate in cantina” sia spesso fonte, per chi le ritrova, di reminiscenze folgoranti.
Ricordo ad esempio distintamente alcuni fotogrammi di quando Adolfo Parentini mi regalò la bottiglia di cui sto per parlare. Era, mi pare, il 2010. Una luminosa giornata di primavera. Ed io stavo facendo una delle periodiche escursioni professionali in Maremma. Parlammo a lungo non solo di vino ma, appunto, di Maremma, dove certi umori stavano cambiando.
Tornai a casa e della bottiglia si persero le tracce, per l’ovvia ragione che l’avevo messa nel posto sbagliato.
Il fatto di averla rintracciata per caso proprio alla vigilia della ventunesima edizione di “Vinellando” – la simpatica kermesse di Magliano in Toscana in programma dal 19 al 21 agosto prossimi, che mi vedrà immeritatamente presidente della giuria deputata, con esimi colleghi (tra i quali alcuni IGP…) a scegliere, alla cieca si capisce, il miglior Morellino 2020 e il Morellino 2020 “più tipico” (e qui si aprano le cateratte delle polemiche, il bello del resto è questo!) – è stato un segno del destino: senza esitazioni l’ho stappata, pieno di curiosità.
Primo segnale incoraggiante: tappo perfetto (anche perché di qualità, cosa all’epoca non sempre scontata per questa tipologia).
Secondo segnale incoraggiante: colore bellissimo, integro, un rubino caldo e pieno con appena un’ombra, un accenno o ancora meno di aranciato.
Dopo avergli concesso l’adeguata respirazione ho messo il vino nel bicchiere e qui il respirone l’ho dato io.
Al naso mostra un’ovvia “saggezza”, ma nessun cedimento. Emerge un frutto dolce, maturo, che presto lascia il posto alla resina, alla macchia mediterranea, al sottobosco asciutto così tipicamente maremmano. Dopo un po’ ecco una nota balsamica e poi terra smossa, qualche flash di carne cruda e via una sequenza cangiante che, tuttavia, non perde mai equilibrio né eleganza.
Anche in bocca è diretto, anzi dritto, senza spigoli ma nemmeno non curvo né incrinato, bello godibile. L’impatto non lunghissimo è compensato da una scia di retrogusti gradevoli e coerenti, che richiamano – se fosse suggestione, perdonatemi: quando si parla di cose vecchie, come questo vino, l’effetto madeleine è spesso inevitabile – certe atmosfere sensoriali delle pinete estive gracchianti di cicale. Chi c’è stato comprenderà.
Una bevuta resa ancora più piacevole dall’accorta temperatura di servizio, mantenuta fresca, e dall’abbinamento sbarazzino: pizza fatta in casa con farina di grani antichi.
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