Questo articolo fu pubblicato il 31 agosto 2011 in una pagina speciale che il Mattino dedicava alla Festa della Pasta di Gragnano. Rileggerlo dopo nove anni mi dà i brividi: a volte, assorbiti dal quotidiano, diventa difficile rendersi conto dei momenti storici vissuti e raccontati. C’erano i blog ma i social ancora no, e neanche Masterchef: quasi tutti i protagonisti citati calcano ancora la scena a conferma di una onda lunga che continua sino a oggi. Il giorno stesso Giovanni mi chiamò commosso: era la prima volta che il suo nome finiva sul giornale e lui aveva una strana sensazione perchè il suo modo di essere protagonista era cucinare nelle kermesse.
In questo articolo viene reso onore, in tempi, appunto, non sospetti e non post mortem, al ruolo svolto da Giovanni Assante ed è per questo, oggi a cui gli amici e i familiari rivolgono l’ultimo saluto terreno, che ho pensato di ripubblicarlo per rendergli omaggio e raccontare ai più giovani una storia che fa parte del nostro, ma soprattutto del loro, futuro.
Ciao Giovanni
Certo, se Gragnano avesse promosso il vino nel bicchiere come la pasta nel piatto oggi sarebbe famosa quanto Barolo. Già, perché la necessità di ogni ristoratore stellato dalla Michelin di avere in carta i paccheri piuttosto che gli spaghettoni o i pennoni nasce dalla totale reinvenzione di questo prodotto.
Una successo irresistibile, iniziato ovviamente in Campania, dove praticamente in ogni ristorante c’è la pasta di Gragnano, e proseguita in tutte le regioni d’Italia: a Milano da Aimo e Nadia e Sadler piuttosto che a Roma da Agata e Romeo. Neanche il profondo Nord, l’ex regno della polenta e dei risotti, ha potuto resistere alla avanzata della pasta secca.
Merito anche di due grandi chef napoletani impegnati in Lombardia: Ilario Vinciguerra in provincia di Varese e Antonino Cannavacciuolo a Villa Crespi. Ma non solo: il tristellato Da Vittorio a Brusaporto della famiglia Cerea ha da tempo i paccheri in carta, a La Francescana di Modena le sfoglie della tradizione emiliana convivono con i conchiglioni e gli spaghetti. E, per tornare un attimo a Milano, ci sono anche Trussardi alla Scala, Alice di Viviana Varese. Ancora nel profondo Sud, ai vertici siciliani: i mitici Ciccio Sultano a Ragusa e Pino Cuttaia a Licata.
Da dove nasce questo consenso unanime alla pasta di Gragnano, il souvenir preferito, insieme alla mozzarella, dai turisti che transitano per Capodichino?
Era il 1978 quando due giovani di saporite speranze, Giovanni Assante e Antonio Marchetti, rilanciarono vecchie trafile di cui si stava perdendo ogni traccia dopo lo tsunami alimentare omologante degli anni ‘60 e ‘70, grazie al quale l’industria ha vinto la partita con l’artigianato di qualità. Dietro i famosi marchi Gerardo Di Nola e Maestri Pastai di Gragnano sono spuntati dalla dispensa della memoria formati finiti quasi in disuso come le candele, i paccheri, i pennoni, i conchiglioni, i fusilli, gli spaghettoni e tanti altri.
Ma non è solo operazione nostalgia. Sta evolvendo il concetto stesso di uso della pasta nelle ricette, dal sushi con i crudi di pesce creato da Gennaro Esposito una decina di anni fa all’effetto quasi decorativo con cui viene interpretato dal bistellato Nino Di Costanzo al Mosaico dell’Hotel Manzi di Ischia che usa ben 21 formati diversi nella sua famosa «Pasta e patate». E su questa linea in Campania c’è anche Michele Deleo dell’Angiolieri.
Insomma, paradossalmente, «lo sfondamento» della pasta nell’alta ristorazione è avvenuto proprio quando è venuta meno la sua funzione principale: sfamare.
Se fossimo rimasti a Miseria e Nobiltà o ad Alberto Sordi, le cose sarebbero andate ben diversamente. E mai un chilo di buona pasta avrebbe potuto superare i cinque euro. Si è consumata così la rivincita dell’alto artigianato sull’industria, tanto da costringere tutti i grandi marchi a creare nuove linee per poter rientrare in qualche modo nei ristoranti che contano.
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