“Lo Chef è un Dio”, opera prima della giornalista Ilaria Bellantoni, è stato presentato ieri sera alla Feltrinelli di corso Buenos Aires. Sono andato a curiosare anch’io e ho persino brindato con in mano il mio bel martini (bianco, lo preferisco bianco).
Niente da dire, la Bellantoni è un tipo niente male. E non parlo solo della presenza o dell’abito grigio che indossava, fascia color verde-acido in vita e tacco-12. Piuttosto del suo apparire dapprima timida e impacciata, quasi timorosa per il polverone che s’è alzato soprattutto in rete; poi ancora, ironica e sicura di sé, provocatrice; quindi, seccata e allo stesso tempo quasi divertita per le critiche che le sono piovute addosso dal mondo dei «gastro-freak, foodies, gourmet e similari» (vi dice niente analfabetismo gastronomico?).
Ci sono andato pur non avendo ancora letto il libro. L’ho comprato, però; e – tàc – sono riuscito pure a farmelo autografare. Mi dichiaro moderatamente ottimista (?), specie dopo le parole dell’editor feltrinelliano Carlo Buga che lo ha definito un libro «a suo modo sorprendente»; e quelle della giornalista Claudia Ceroni che ne ha parlato, invece, come di «un libro da leggersiavidamente».
Il titolo? No-ti-zio-na: quello originale era “Io odio cucinare” – ma va?!? Chi l’avrebbe mai detto… – assillo ricorrente nel libro e pure durante l’incontro di presentazione. Che poi, il non saper cucinare è in pratica l’unica cosa certa (lo ha detto lei). Il matterello non le manca affatto, «che ci posso fare se non sono una di quelle che tira la sfoglia cantando!?»
Notiziona nr. 2: l’idea di scrivere “Lo chef è un Dio” è nata per caso durante un weekend trascorso con alcune amiche (l’avevo già letto da qualche parte): la prendevano in giro per quella sua ostentata inettitudine ai fornelli e, così, la invitarono a frequentare un corso di cucina. A quel punto, il lampo di genio: del tipo che «se proprio devo fare un corso, meglio farlo da uno chef talentuoso e possibilmente belloccio».
Belloccio e di talento: ecco l’identikit del misterioso (?) protagonista, lo chef tri-stellato, o meglio il Dio-chef che poi l’ha accolta «nel bunker» per un mese. È luglio e fa caldo quando l’autrice, indossato il suo bel «camice da cameriera», inizia quello che si rivelerà per lei, alla fine, un «percorso lungo e umiliante». Lo chef sapeva benissimo che ne avrebbe scritto e così l’ha trattata allo stesso modo dei componenti della brigata – si dice così – e cioè, com’era d’uso in un ambiente che l’autrice ha definito “violento” («volano ceffoni a go go, ‘cheffini’ di 18-19 anni sono pronti ad accettare qualsiasi cosa pur di arrivare»).
Perché Vito Frolla?: «Era divertente. Non avrei mai usato il suo vero nome, gli avrei fatto troppa pubblicità». Nessuna vendetta (dichiarata) per le malefatte cui giura di avere assistito, voleva solo scrivere un libro. O meglio, un «docu-fiction». Anche se, forse forse, un po’ d’astio si intuisce in più punti. uandodddduCurioso, ad esempio, che gli altri personaggi citati abbiano tutti il proprio nome e cognome. In ordine di gradimento: Pietro Leemann («uomo colto e tanto gentile, capace di spezzare la catena della violenza»), Gualterio Marchesi («uomo affascinante, uno dei pochi a essere in grado di comporre una frase di senso compiuto con soggetto, predicato e complemento»), Alain Ducasse («almeno, da lui, i camerieri vestono come Dio comanda. Ragazzi, penso ci voglia un minimo di decoro per un ristorante con 3 stelle michelin») e Davide Oldani («sapete!? Mi ha promesso un cartone in faccia dopo che ho scritto del suo pranzo pop ma così così»). Oppure quando parla dell’uovo “di gomma” di Vito Frolla (quello che Edoardo Raspelli aveva definito come una «boiata pazzesca», per la Bellantoni è nient’altro che un «chewingum salato che si appiccica al palato e costa appena 38 euro; macché, molto meglio il ‘fondant au chocolat’ di Alain Ducasse, che è pure più bravo di Vito Frolla»). Oppure ancora quando ricorda della cena post-praticantato al ristorante del divino chef: «è un lusso sperperare certe somme per cene così costose».
Scusi, una domanda. Ma allora perché è andata a mangiare da Vito Frolla? «Volevo che desse un giudizio sulla mia torta alle mele, ma non c’era». Quale torta di mele? Ah sì, quella della ricetta propinata in chiusura del masterpiece. Lei odia cucinare. Ma non la torta di mele, ché anzi quella pare le riesca pure bene. E io voglio crederci.
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