di Raffaele Mosca
I primi saranno gli ultimi, gli ultimi saranno i primi. E’ una frase fatta, un po’ banale se vogliamo, ma che sintetizza bene il percorso del protagonista della seconda masterclass di Paestum Wine Fest: il Kai di Paraschos, presentato dal wine killer Luca Gardini in collaborazione con Meteri. Un vino controcorrente, nato sul finire dell’epoca d’oro per i
bianchi barricati, che nei primi anni di vita ha patito un certo insuccesso commerciale, salvo poi salire alle luci della ribalta con la rivoluzione “orange” e diventare un punto di riferimento per la nicchia del vino naturale.
Prima etichetta italiana di alta fascia ad essere imbottigliata senza aggiunta di solforosa, Kai è anche una delle migliori interpretazioni del Friulano – precedentemente noto come Tocai – vitigno bistrattato, penalizzato da manipolazioni genetiche mirate alla riproduzione su larga scala dei cloni più produttivi e meno qualitativi. Le vigne di provenienza hanno 86 anni e si trovano a Gradiscutta, nel cuore della porzione italiana del Collio. La prima annata è stata la 2003 e, da quel momento ad oggi, è cambiato ben poco nel processo di lavorazione, che può essere sintetizzato in: gestione del vigneto in regime biodinamico, fermentazione spontanea con le bucce in tini alti e stretti – per controllare la temperatura senza l’ausilio della tecnologia – affinamento in botti grandi di rovere di Slovenia alla maniera di un grande rosso ( per non meno di 24 mesi), nessuna filtrazione e/o solfitazione prima dell’imbottigliamento. L’unica differenza che si nota in questa verticale di sei annate è una riduzione della macerazione a partire dal periodo in cui Alexis Paraschos, attuale rappresentante della famiglia, ha preso il posto di suo padre Evangelos, greco di Salonicco trapiantato nella campagna goriziana, allievo dei maestri Gravner e Radikon e fondatore della cantina-agriturismo in quel di San Floriano del Collio.
Per dirla in parole semplici, le annate più vecchie sono più scure nel colore, più concentrate e un po’ più rustiche rispetto alle nuove, che, invece, si distinguono per finezza ed equilibrio. Tutto ciò a fronte di una pulizia impeccabile su tutta la linea, dimostrazione del fatto che si possono produrre vini eccezionali senza “ritocchini” enologici di alcuna sorta se si ha una conoscenza approfonditissima della materia e dei processi e non ci si para dietro ad estremismi che non portano a nulla. La macerazione, l’ ossidazione e il non interventismo in cantina possono essere fonte di omologazione al pari delle tanto vituperate barrique o dei lieviti selezionati più invasivi, ma, se vengono gestiti
alla perfezione, danno carattere, originalità, ricchezza aromatica e anche longevità.
La verticale:
2009
Un colore ancora sgargiante nei suoi toni aranciati – sebbene appena velato – rende subito un’idea di perfetta integrità, confermata al naso dagli aromi diretti e accattivanti di nespola e caramella d’orzo, salvia, mentuccia, che lasciano poi spazio a una vena iodata, a un’idea di pepe bianco e a un’altra appena accennata di frutta secca. La tonicità del sorso è eccezionale: è un rosso vestito d’arancione per volume, ampiezza e piglio tannico.
Ma scorre con grande nonchalance tra ritorni di sale, arancia amara, miele e un cenno fumè che accompagna la chiusura piacevolmente polverosa, appena rustica se vogliamo, ma di grande persistenza.
2012
Il colore è più o meno lo stesso, ma il timbro aromatico ci riporta ad un’annata più calda e assolata, con cenni di maron glacè e zuppa inglese che fa capolino tra ricordi di frutta estiva molto matura, timo e qualche spunto fumè E’ meno tannico del precedente, più morbido ed equilibrato nel suo insieme, ma comunque molto sapido, soprattutto nel finale pulito e preciso. Non il più sfaccettato dei vini in batteria, ma particolarmente godibile in questa fase.
2016
Forse il più travolgente a prima annusata: libera un tripudio di miele amaro e mandarino, erbe aromatiche, fieno, spezie che vanno dalla cannella al chiodo di garofano. In bocca, invece, è la matrice minerale quasi rocciosa a condurre i giochi, rafforzata dal tannino ben in evidenza e calibrata dalla ricchissima polpa fruttata. Vino ampio, stratificato, straordinario nel suo equilibrio tra potenza e scorrevolezza. Già adesso è un fuoriclasse, ma non lo stapperei prima di tre/quattro anni.
2018
Il frutto è nettamente meno maturo – arancio, nespola – e s’intreccia con toni di cappero, curcuma e iodio. E’ un po’ più semplice del 2016, ma comunque equilibrato, anzi garbato nello sviluppo che diventa balsamico nella chiusura di grande freschezza. Giovincello con ottimo potenziale.
2019
In fase embrionale come il 18’, ma qui si avverte la complessità aromatica della grande annata: zafferano e composta di pere, lavanda, pietra focaia, le solite erbe spontanee.
Quasi travolgente la presa tannica del sorso di spalla e d’ampiezza, giustamente polveroso e giovanilmente irruente, ma con stoffa notevole, evidenziata anche dal finale mentolato e speziato di particolare raffinatezza. Un contadino gentiluomo!
2007
Il decano della verticale: Luca ha voluto metterlo alla fine, perché è l’unico vino della batteria prodotto interamente da Evangelos. Ha un colore molto bruno – quasi da rum agricolo – e un profumo maturo, disteso, di caldarroste e genziana, tabacco biondo, albicocche sciroppate. Lo stile aziendale a quei tempi era incentrato sulla potenza, e, in
effetti, il perno del sorso è ancora il tannino arrembante, che dà vigore a una progressione non finissima, ma di ottima vivacità. Ha già raggiunto il suo picco, ma non mostra nessun cenno di cedimento.
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