La follia irlandese, assecondata dai burokrati di Bruxelles, di trattare le bottiglie di vino come i pacchetti di sigarette ha almeno il merito di fare chiarezza su una questione che ormai va avanti da dieci anni esatti. Già, perché mette sullo stesso piano vini convenzionali e vini naturali chiudendo per sempre le porte alla retorica salutistica con cui certe produzioni a corto di argomenti palatali ma vivaci commercialmente, hanno conquistato larghe fette di mercato.
Sarebbe adesso il momento di fare chiarezza una volta per tutte, e dirci che ciascuno può fare il vino come ritiene ed esaltando i risultati che ottiene, ma senza pensare di guardare dall’alto in basso coloro che continuano a fare vino cosiddetto convenzionale.
Entrambi adesso, il boia e il condannato, scegliete voi la parte, rischiano la ghigliottina di Bruxelles senza alcun distinzione. Con solfiti o meno non fa differenza perchè il punto è l’alcol.
Ho vissuto da giovane la stagione ideologica degli anni ’70, le scissioni dell’atomo avvenute nella sinistra sulle interpretazioni di un testo di Karl Liebknecht piuttosto che di Trotski per non restare sorpreso e direi inorridito dalla riproposizione di questi schemi in via del tutto caricaturale nel mondo del vino negli ultimi vent’anni con le grandi aziende a fare la parte dei cattivi e le piccole in odore di santità purissima.
L’ideologia è una cosa bella e rassicurante, come la religione, consente di vivere bene e con tante certezze, ma quando si inizia a piegare la realtà alle proprie visioni della vita vuol dire che è solo una fotografia che sta sbianchendo lentamente. E i rischi sono terribili per chi vive il quotidiano realmente.
Si parlò tanto di influenza e di intrecci fra le potenti famiglie del vino e le guide specializzate, ma per esperienza diretta posso assicurare che la più potente delle lobby, il neopapuperismo illogico, ha sostenuto e fatto la fortuna di un piccolo viticoltore irpino per cui ho ricevuto pressioni inaudite che non hanno mai avuto alcun paragone con altre aziende.
Tanto per fare un esempio di come la realtà sia spesso l’opposto della sua rappresentazione. Marx la definiva “falsa coscienza”.
La verità non può che essere chiara e cristallina: un vino piace o non piace. Abbiamo vissuto l’era delle barrique, poi quella di no barrique no Berlusconi, poi quella del ritorno al cemento (a proposito di naturale..), infine il fascino delle anfore confondendo il mezzo con il fine, o ritenendo, peggio, che il mezzo sia lo strumento più comodo per arrivare al fine commerciale. Tutto questo dimostra ancora una sostanziale immaturità del sistema del vino italiano, o, meglio, l’essere specchio perfetto della società che lo produce e che lo beve.
Di recente Carlo Macchi, in un post su Winesurf ha sollevato con molta autorevolezza il tema sottolineando che ogni puro alla fine trova qualcuno che lo epura (presto mi seguirai disse Danton a Robespierre salendo sulla ghigliottina) e commentando un articolo a firma Stefano Bagnacani sul tramonto del cosiddetto vino naturale e l’avvento del cosiddetto vino “naturalino”.
Scrive Carlo: “(Baccagnini) rivendica in primo luogo che i vini naturali, quelli con volatili alte fino al cielo, che per gente come me puzzavano erano in realtà una categoria rivoluzionaria, con produttori che si sentivano diversi, quasi “carbonari” e volevano cambiare le cose partendo dall’agricoltura e dalla vigna. Piano piano siamo però arrivati al vino naturalino, quello furbo, fighetto, di tendenza, dove chi lo produce non parla di vigna, non dice da dove arrivano le uve ma parla solo di “processi naturali” in cantina. I vini naturalini sono solo vini di tendenza e fondamentalmente non hanno niente a che vedere con i veri vini naturali: l’autore fa l’esempio dei pet-nat ma tutto ruota su quello che potrei definire “un fallimento e un superamento mercantile degli ideali dei vini naturali”.
Intendiamoci, io la penso più o meno esattamente come Carlo: la sterzata verso il rispetto della terra, il tentativo di produrre uva sana e vini non omologati merita tutto il rispetto e l’incoraggiamento possibile, ma essere buoni contadini non significa essere bravi produttori, una puzza è una puzza. Punto.
La corrente dei vini naturali incrocia il bisogno di verità che abbiamo dopo la sbronza industrializza che ha fatto dimenticare alla gente il cibo per esaltare le marche. La vittoria dell’industria è stata tutto sommato rapida e totale nella maggior parte dei consumatori, le piccole sacche di resistenza non impensieriscono le multinazionali. Ma è proprio nel settore vino che è avvenuto il rovesciamento del fronte dilagando per due motivi: il primo è che noi italiani, figli dei comuni, siamo istintivamente contro le cose grandi, piccolo è buono, bello e alla nostra portata. Il secondo è l’allarme generale sull’ambiente che sta adesso per travolgere i produttori di carne.
Ma il punto qual è? E’ che l’export italiano, oltre sette miliardi, non è costituito da queste piccole cantine che producono a volte si altre no buoni vini, bensì dai grandi nomi dell’enologia e della viticultura nazionale. E che proprio questa fetta di mercato è nel mirino dell’attacco al vino che però coinvolgerà anche i sette miliardi e passa di consumo interno in cui rientrano i vini naturali.
Lo scontro sarà duro e articolato, non basterà certo ricordare le bontà del vino per uscirne, perché l’attacco, pensiamo anche al nutriscore rosso sull’olio di oliva, è culturale e commerciale contro la Dieta Mediterranea da parte delle lobby che stanno sommergendo il pianeta di prodotti oncologici pur di fare profitto.
Sarà bene allora che questi due mondi così vicini ma così lontani e contrapposti, studino forme di alleanza concreta, di reciproca legittimazione se non vogliono fare la fine dei polli di Renzo. Anche perché il termine naturale è un po’ come l’Araba fenice, che si sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa.
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