I riconoscimenti più belli sono quelli che non ti aspetti. Come questo che mi è stato assegnato ieri alla presenza del presidente e del direttore di Verona Fiere. In questa occasione ho ripassato con la mente la incredibile cavalcata del vino campano che ho avuto la fortuna di poter vivere e raccontare in prima persona sul Mattino e, dal 2004, anche sul blog personale.
Era il 1994 quando mi affacciai con la testa nella stanza del caporedattore centrale dell’epoca, Pietro Gargano, una delle migliori penne di sempre del Mattino. Ne avevo discusso con Santa Di Salvo che all’epoca aveva la responsabilità di un settimanale di cultura e tempo libero e forte del primo sì feci la proposta: «Posso fare una serie di articoli dedicati alle famiglie del vino campano?». Uno sguardo, un sorriso, il placet: «Vai, mi piace».
Inizia così il racconto del vino sul Mattino, interrotto un anno prima dall’uscita di Mimì Manzon e fu allora che mi trovai di fronte alle praterie sterminate dove non c’era nessuno: i Martusciello che avevano avviato appena il progetto Grotta del Sole, i Mastroberardino (all’epoca in azienda con Antonio c’erano entrambi i figli ed era appena avvenuta la scissione con Walter che aveva fondato Terredora), il silenzio dei Frassitelli con Corrado e Andrea D’Ambra prima della loro separazione, la visita al professore Antonio Troisi di cui è testimone questa foto scattata da Lino Sorrentino, gli Ercolino che avevano appena creato la Feudi di San Gregorio, gli altri Mastroberardino, Paolo e Daniela.
All’epoca, parafrasando una frase del Metternich, la Campania era una mera espressione geografica. C’erano le cantine sociali di Benevento che producevano enormi quantità di sfuso e bottiglioni e pochissime aziende. Appena sette furono quelle che aderirono alla prima giornata di Cantine Aperte organizzata da Corrado D’Ambra, primo presidente Mtv Campania e primo viticoltore ad avere una visione politica del mondo del vino. Consorzi? Manco a parlarne.
Improvvisamente la regione partì, un po’ come si appiccano gli incendi estivi: con più punti di fuoco. Allo scheletro composto dalla Mastroberardino con Aglianico, Fiano e Greco, Moio con il Falerno, D’Ambra con la Biancolella e il Piedirosso d’Ischia si attaccò la ciccia di tanti progetti. Luigi Moio, figlio di Michele, che torna da Bordeaux e introduce la barrique nell’Aglianico avviando un progetto di collaborazione, interrotto nel 1998, con la Feudi san Gregorio.
L’impostazione di Grotta del Sole che abbracciava tutti gli autoctoni di Napoli e della provincia di Caserta. L’intuizione di Nicola Di Girolamo, responsabile del Cantina del Taburno, di lanciare le bottiglie renane di Fiano, Falanghina e Coda di Volpe che avrebbero invaso finalmente il mercato napoletano allora pieno di Pinot Santa Margherita e merlot veneto. La ricerca sulla Falanghina condotta da Leonardo Mustilli con Angelo Pizzi, lo stesso Martusciello. Ma quello che fece davvero il botto fu il Montevetrano che ebbe un punteggio altissimo da Parker, tale da accendere i fari dell’interesse della critica internazionale. Infine il calo del prezzo delle uve spinse molti produttori a mettersi in proprio e nacquero così aziende leggendarie come Molettieri emblema del Taurasi, Clelia Romano per il Fiano, Benito Ferrara per il Greco, Marisa Cuomo a Furore, Maffini e De Conciliis in Cilento.
A distanza di 25 anni possiamo dire che il vino è qualcosa che ha sempre funzionato in Campania. Dai Vinitaly in cui c’erano solo limoncello e liquori della Costiera lentamente, a partire dall’assessorato di Antonio Lubritto, la presenza è costantemente cresciuta. La regione, all’epoca, era però molto impegnata anche nella ricerca e nella ridefinizione delle doc che furono fissate quasi tutte nella prima metà degli anni ’90 puntando esclusivamente sui vitigni autoctoni.
Questa diversità della Campania, pur nei diversi tentennamenti, alla fine ha vinto perché si è creato, soprattutto nei bianchi, uno stile proprio, caratteristico, non ruffiano e stancante. Mentre l’Italia riscopriva i vitigni autoctoni in Campania già partiva la seconda ondata con il rilancio, ad opera della Vestini Campagnano di Peppe Mancini, Manuela Piancastelli e Amedeo Barletta, del Casavecchia e dei Pallagrello Nero e Bianco.
Il momento più difficile è stato, come per tutti, il periodo seguito all’attacco alle Torri Gemelle, quando il mercato estero, soprattutto quello americano, subì un serio contraccolpo. Complice il passaggio dalla lira all’euro, i prezzi delle uve si abbassarono ulteriormente e nacque così una seconda ondata di aziende che in seguito si si sono riuscite da affermare. In alcuni casi si trattava di produttori, in altri di un reddito aggiuntivo per chi faceva altri lavori che però ad un certo punto si è messo in proprio: nascono così Ciro Picariello, la Fattoria la Rivolta a Benevento, San Francesco a Tramonti e tante altre.
Negli ultimi anni la novità è costituita dal Consorzio Sannio che prima ha promosso la riorganizzazione e semplificazione delle doc della provincia di Benevento, poi ha iniziato un discorso di promozione e di controllo sulla produzione riuscendo ad intercettare molti finanziamenti pubblici. L’intesa tra grandi e piccoli, storicamente rivali, è stata la chiave di concreti risultati commerciali. Ora questo modello si replica sul Vesuvio e in provincia di Salerno mentre l’Irpinia ha dapoco superato la divisione trovando una intesa tra i produttori. Campi Flegrei e Caserta, invece, sono ancora un po’ in ritardo. Eppure l’esperienza dimostra che senza un consorzio forte non si riesce ad andare da nessuna parte.
La storia oggi continua, tanti sono gli stili che si incrociano, tante le possibilità di una viticoltura sostanzialmente orientata verso i vini bianchi. La memoria dei primi pionieri è tenuta in vita solo da pagine come questa, eppure solo con il culto del passato si riesce a costruire un futuro credibile.