di Monica Piscitelli
Tempi duri per il vino. Durissimi. Dalla mia Oklacà in Grecia la prospettiva è nera. La stagione estiva, che tutti aspettano, sembra non arrivare ancora. Si sposta di giorno in giorno di una settimana in là l’arrivo fatidico della gran massa.
Sono leggenda le notti alla Chora dove si cammina sgomitando per farsi largo. Ed Atene? Non ne parliamo proprio. Lo spettacolo delle saracinesche chiuse è sconfortante.
E’ una lenta agonia quella della Grecia, sempre sul filo del dentro o fuori. Meglio fuori, forse. Al greco comune, del resto, non sembra interessare molto. Non cambia il peggiore dei suoi costumi: l’indolenza. C’è, poi: furbizia, poco amore per la cosa pubblica e mancanza assoluta di puntualità. Senso del dovere nullo. Tutte cose che da napoletana mi impressionano poco, invero. Non posso permettermi di essere impietosa.
Con la stessa pazienza che esercito nei confronti del mio popolo, mi azzardo a ipotizzare che la deriva morale della Grecia venga dalla assottigliarsi della speranza dovuta alla cronica disillusione della fiducia collettiva.
E’ accaduto storicamente anche da noi. I peggiori cancri della società meridionale sono frutto della perpetrato abbandono dei governi nei confronti dei propri elettori. Spero che i greci non firmino per il futuro nessun patto con il diavolo e optino per restare liberi.
L’esercizio dell’espediente come norma di vita e la conseguente strafottenza nei confronti di tutto sono le conseguenze logiche di una condizione di frustrazione come quella che deriva dal verificare di continuo che chi deve curare i tuoi interessi di cittadino ti ruba il pane. Diversamente dai meridionali italiani, i greci, però, hanno perso anche una certa attitudine verso il prossimo.
Pensano solo a sè stessi, fino a non pensare affatto al proprio Paese e ai propri concittadini. Ma quale Paese è quello nel quale testa e corpo sono irreparabilmente staccati l’uno dall’altro?
Tra le ragioni di ciò la disperata condizione di molti di loro e per la rabbia di fronte all’ingiustizia di veder crescere esponenzialmente gli oner e, contemporaneamente, dimezzare gli stipendi e le pensioni.
Quante volte sono stati dimezzati? Esattamente non lo so. Mi parlano di stipendi da impiegato nella amministrazione che sono arrivati a 400 euro. Senza contare quelli che stanno peggio: licenziati senza appello.
Ma non è della Grecia che voglio parlare, perchè la crisi è generale.
Il prossimo sabato si saprà come sarà stata questa stagione 2012. Le prospettive non sono rosee. Le città, mi riferiscono, sono piene. La gente, anche in vacanza, fa incetta nei supermercati e cucina a casa.
I distributori di vini ad Atene, con i quali sono in quotidiano contatto per ragioni di simpatia e lavoro, sono a caccia di vini da acquistare a partire da 5 euro. Ma non robaccia, vini di qualità. Di quelli che si trovano esercitando più pazienza e competenza. Uno di loro va a fare il pieno con mezzi propri, abbattendo anche i costi di trasporto.
Nel sud Italia, di vini competitivi ce ne sono tanti, ma non si sanno promuovere. Chi li cerca non li trova. Accade allora che escano, mi dicono, dai listini perchè con uno sfavorevole rapporto qualità prezzo rispetto a quelli del Piemonte e della Toscana. Mi sembra incredibile.
Ma la verità è che per un vino, data la generale ignoranza del pubblico, avere, ancora, in etichetta il nome di queste due regioni, rende già da sè la bottiglia maggiormente attrativa all’estero. A parità di prezzo o anche per pochi euro in più, non c’è storia, si preferirà quello di queste regioni. Un vino del Sud deve costare molto meno.
Come una donna per ottenere un buon impiego: deve essere più brava del collega maschio.
Ci sono poi parole magiche in mercati come quello greco che non è di fini gourmet, non me ne vorranno (con le debite eccezioni per una fetta di abitanti della capitale): Prosecco, Champagne (la differenza tra i due non è nota), Pinot Grigio. Ma ci sono anche quelli che apprezzano la Vernaccia di Serrapetrona. Un vino che un suo produttore arrivò a dirmi “diciamoci la verità: chi se la beve?”.
Cosa può fare un ristoratore di questi tempi? E come può gestire la sua cantina?
Incostrastata ammirazione va a chi può, o solo vuole, o perpetra per davvero, la scelta di un numero elevato di referenze. L’immobilizzo di denaro che questa scelta comporta è ingente e l’incertezza massima.
Per una piccola realtà imprenditoriale come la mia, per di più stagionale, la scelta è obbligata: carta dei vini leggera.
Ciò non vuol dire senza carattere. Anzi: ne occorre di più perchè possa avere una sua coerenza e appeal. Io ho puntato sui bianchi e sui rosè. Siamo al mare. Per venir incontro ai rossisti ho tirato fuori qualcosina tra la Grecia e l’Italia. Un Barbera d’Asti (le etichette a base Nebbiolo mi son parse troppo) e un Chianti dei Colli Senesi onesto. Giusto per far felici alcuni turisti. Mi convince, davvero, la Denominazione Nemea che fa base sul vitigno AgiorgitiKo, fresco e fruttato, a volte elegante.
I vin i li ho provo tutti personalmente (mi raccomando questo è fondamentale: se non piace voi difficilemente piacerà ad altri) e li scelgo, dovendomi raccappezzare tra molte etichette, in base al gusto dell’estetica e alle informazioni che il produttore ci ha messo dentro). Come fare diversamente se il 90% sono scritte in greco? Il prezzo, non volendo proporre etichette eccessivamente care e non volendo far ricari ridicoli, è un altro indicatore.
Ma non è solo questione di numerosità delle referenze, quella della carta. Una carta dei vini è un piccolo o grande progetto. Deve puntare alla realizzazione di un obiettivo. Nel mio caso quello di accompagnare i miei piatti e quello di far girare i vini.
Voglio che la gente sperimenti. Ecco perchè ricorro al vino al bicchiere, seppure sia a volte impegnativo per un locale piccolo come quello mio e di mio marito. Senza contare che ogni bottiglia mi costa tanta fatica per seguirne la consegna su questo scoglio a 8 ore da Atene. Ogni goccio è prezioso. Sarei ricorsa volentieri anche alla mezzina per invogliare il pubblico a bere bene. Ma sono pochissime quelle che trovo in Grecia. Dunque vada per il bicchiere!
Ma sono andata oltre. Ho voluto l’applicazione del decorcage fee e il “doggy wine bag” … take away . Ciò vuol dire che chi viene ad Oklacà può portare il suo vino da casa e pagare 5 euro per stappare la sua migliore bottiglia e può anche chiedere che, a fine serata, gli si prepari una borsa per portar via quella non ultimata. ù
Mi è parsa cosa buona e giusta.
Non potevo professare tutto ciò e non metterlo in pratica. Non volevo fare la fine dell dietologo obeso. La cosa è fatta. Credo Oklacà sia l’unico locale del Dodecaneso, di sicuro di Patmos far queste due cose. Ne vado fiera.
ieri sera due ragazzi, belli e simpatici, colti aggiungerei, hanno tirato fuori da una busta di plastica una bottiglia di spumante. Poi hanno consumato la loro cena. Il vino gli è stato portato a temperatura, servito in un bel bicchiere e loro son rimasti contenti.
La cosa mi ha dato una certa soddisfazione e allora ho capito perchè mi sono buttata su questo piccolo progetto pazzo. Perchè una testa da imprenditrice come mio padre: amo decidere per conto mio, anche contro i pareri degli altri. insomma la testa son disposta anche a rompermela se son convinta di una cosa.
Ma mentre vinco alcune piccole battaglie, il vino della casa va ancora forte. 8 euro 1 litro. Non che sia cattivo, ma quando l’alternativa è ragionevole come quella della mio locale, allora, davvero mi rendo conto che la crisi è dura. Anche 5 euro di differenza pesano come un macigno sulla tasca del cliente. Questa battaglia non la posso vincere da sola. Occorre che la Grecia si rialzi, io (noi), da imprenditrice,ho creduto in lei. Ad maiora!
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