Matteo Ascheri, presidente del Consorzio del Barolo e del Barbaresco, in una interessante intervista rilasciata a Dissapore ha, tra l’altro, dichiarato: Le fiere avevano una funzione essenziale anni fa quando gli affari li facevi lì. Oggi non è più così. Entriamo in contatto con nuovi clienti quotidianamente e con mezzi decisamente meno costosi. Oggi ci si sente via mail, su Skype o su Zoom. Se hanno bisogno di campioni li spediamo in tutto il mondo in tempi brevi. Insomma i soldi investiti in una fiera come Vinitaly posso essere spesi meglio. Non ho la pretesa di avere la verità in tasca. Ma parlando da viticoltore interessato a promuovere il proprio prodotto penso che per farlo Vinitaly non sia più necessario.
Non è certo la prima volta che qualcuno mette in dubbio l’utilità della Fiera di Verona. Di più, tentativi importanti per creare una alternativa sono stati ampi, convinti e decisamente portati avanti nel corso degli ultimi decenni. I colleghi più avanti negli anni ricorderanno il MiWine spinto da alcune delle aziende più grandi convinti che Milano fosse una piazza più attrezzata per una fiera sul vino e il Salone del Vino a Torino sostenuto generosamente dalla Regione Piemonte. Entrambi i tentativi sono falliti, un po’ perché il know how di una fiera non si costruisce dall’oggi al domani, un po’ perché l’Ente Fiera Verone ha dimostrato di essere efficacemente reattivo, sono stati creati nuovi parcheggi, nuovi padiglioni, il comune ha organizzato navette gratuite dalla stazione a viale del Lavoro, ma soprattutto l’azione si è spinta verso quello che più interessa le grandi aziende italiane: l’internazionalizzazione.
Ma i temi sollevati da Ascheri restano sul tappeto ed è inutile far finta di niente, per certi versi la crisi delle fiere somiglia un po’ alla crisi del cartaceo, entrambi sistemi solidi messi in crisi dalla diffusione della rete e soprattutto dalle possibilità, prima impensabili che si offrono, a cominciare, appunto, dalle riunioni collettive da remoto passando per l’e-commerce, tanto altro ancora in un mondo totalmente connesso anche se costretto a subire una guerra di stampo novecentesco alle porte dell’Europa.
Al tempo stesso i problemi logistici restano pesanti: l’apertura al pubblico è un grave limite per chi deve fare affari e anche quest’anno non sono mancati episodi di ubriachi che urlavano e sbraitavano come se fossero in Curva B e non in un luogo di lavoro, trovare un taxi è difficile anche se le tariffe sono calmierate e il servizio è sicuramente più economico di quanto non sia nelle grandi città, i costi degli alberghi sono triplicati e quadruplicati nei giorni della fiera e questo incide nei bilanci delle aziende che espongono.
Quindi, se si ragiona in termini ragionieristici (o bocconiani se preferite perché fa più figo) oggi mettere in discussione la partecipazione al Vinitaly non è solo un coup de théâtre per farsi notare ed è vero che per fare affari oggi la tecnologia ci offre tanti strumenti in più rispetto all’era pre Covid. Per non parlare delle iniziative sbocciate ovunque in Italia, da Vini Imbizzarriti a Casalinghe di Voghera Wine Experience per giocare un po’ sui nomi.
Però se questo è vero immaginiamo per un momento un sistema Italia senza Vinitaly. La domanda, politica, non ragionieristica, è: il vino italiano nel suo complesso ci guadagnerebbe o ci perderebbe? Quale sarebbe la nuova geografia di potere in Europa e nl Mondo se in Italia, primo paese per produzione, lasciasse ad altri il compito di fare Fiere? E la Fiera stessa, pur con tutti i limiti che abbiamo citato, non è essa stessa moltiplicatore di un sentimento, di una attenzione, di una energia collettiva nazionale che non ha eguali in altri settori? E ancora, possibile fare affari nel mondo dl vino senza essersi incontrati neanche una volta? Ci sarebbero altre occasioni per piccoli produttori di farsi conoscere?
Il compito di Consorzio è quello di avere una responsabilità collettiva, dunque politica. Un Consorzio come quello del Barolo e del Barbaresco non può abdicare ad un ruolo di leadership solo perché i conti non tornano come prima dopo che per anni ha usufruito dei benefici di essere presente al Vinitaly. Soprattutto non può pensare all’italiana, ossia che il crollo di una vera istituzione dl mondo del vino non abbia riflessi pure sulla propria capacità espansiva perché per quanto forte e affermato, nulla è per sempre e un indebolimento del sistema Italia avrebbe una ricaduta a pioggia su tutto. Anche su chi oggi si crede onnipotente perchè gli affari vanno a gonfie vele. La storia della viticultura è fatta di continui stop and go e la stessa vicenda Covid lo ha dimostrato.
Dunque si alle critiche, si alla contrattazione dei prezzi, ma tirarsi fuori “perchè non conviene” a nostro modesto avviso rivela una visione miope, è un segnale non di modernità, ma di inizio del declino. Un allineamento del mondo del vino in basso, al resto del sistema Italia.
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