di Raffaele Bracale
Oggi vi lascio in compagnia di un pilastro della cucina occidentale: il ragù napoletano. Raffaele Bracale, cultore di cucina e fervido attendente della tradizione immacolata, ci consegna un trattatello con tutto quel che c’è da sapere sull’argomento.
La locena e della carne
Come si sa il ragú napoletano è una salsa di carne e pomidoro, salsa che per esser conseguita necessita di lunghissima cottura (anche cinque o sei ore…) a fuoco dolce. Purtroppo non v’è univocità, tra i cultori, in ordine al tipo di carne che deve concorrere alla formazione del sugo: c’è disparità di vedute. Napoletano di lungo corso, quale sono, ò visto centinaia di ragú fatti con i piú disparati pezzi di carne e posso dire che i ragù che mi ànno soddisfatto il palato sono quelli che usavano la carne di manzo sotto forma di brasciole ossia di grossi involti di carne ricavati da quella che in napoletano si dice lòcena (dal latino auciu(m) che diede dapprima ocio e poi (con agglutinazione dell’articolo lo) locio = vile, di scarto,donde il femminile locia ed infine in napoletano locina o meglio lòcena con epentesi eufonica della N) ed in toscano soppelo; ordunque sia con la voce locena che con soppelo si intende la carne ricavata tra la punta di petto e la clavicola della bestia.
C’è una scuola di pensiero che consiglia per il ragú la carne di maiale; dissento toto corde, in quanto il ragú conseguito con la sola carne di maiale è lento ed inconsistente, o almeno lo fu quando esistettero i grossi maiali dalla saporita carne piuttosto ricca di grasso; oggi forse con l’uso di bestie magrissime, che di maiale ànno solo il nome, il ragú conseguito con la sola carne di maiale non corre piú il rischio di essere lento ed inconsistente. Qualora però qualche testarda massaia (e ce ne sono!), voglia usare per la preparazione del ragú della carne di maiale, non deve mai pensare di usarla da sola, ma sempre in unione con carne di manzo, e tra i varî pezzi di carne di maiale vanno preferiti o la gallinella (sopracoscio) o la tracchiolella (costina che se di collo è detta tracchia umida, in quanto piú morbida e succosa, se di costato è detta tracchia asciutta in quanto essendo povera di grasso è meno morbida e succosa) – mai la salsiccia! -, che devono però, come ò detto, accompagnarsi indefettibilmente alla carne di manzo,in pezzi di polpa della parte anteriore, o preferibilmente, come dicevo, sotto forma di brasciola ossia larga fetta di lòcena arrotolata su se stessa, fermata con il refe da cucina dopo che sia stata ben imbottita di sale, pepe, prezzemolo ed aglio tritati, uva passita e pinoli oltre che di cubettini di formaggio romano e/o caciocavallo da bestie podaliche .
La voce gallenella deriva dal fatto che il sopracoscio à quasi la forma di una piccola gallina con ali e cosce ripiegate sul corpo, mentre il termine tracchiolella diminutivo di tracchia è dal greco tràchelos= collo, cervice in quanto le migliori tracchiolelle sono quelle umide ricavate dalla sfasciatura delle vertebre del collo della bestia.
Non è un semplice ragù di carne
Il ragú napoletano è molto diverso da tutti gli altri ragú di carne, pure ottimi, di cui è ricca la cucina italiana. è diverso per gli ingredienti, per la lunga preparazione, per l’estrema attenzione che richiede, per quella tipica fase di preparazione, fase detta del peppiare ed infine per l’aroma che purtroppo sempre piú raramente si diffonde, il sabato sera, nelle scale dei palazzi di Napoli, dove ahimé sono giunti gli anatemi di tutti i nutrizionisti mediatici che ànno convinto anche i poveri napoletani a bandire dal loro desco domenicale questa sontuosa salsa per sostituirla con insipide salsine bollite, senza nerbo e/o gusto, insipide e prive di grassi animali, salsine che mai e poi mai possono convolare a felici nozze sulla tavola domenicale con i tronfi maccarune ‘e zite spezzati a mano o, meglio ancora, con duttili pacchere magari ‘mbuttunate!
Fortunatamente ci sono ancora dei napoletani d’antan, che – come carbonari o cospiratori del tempo andato continuano a parlare e talvolta a preparare mitici ragú come il Cielo comanda!
Come si fa il ragù napoletano
Cosa significa Peppiare
Molti grandissimi della letteratura e dell’arte lo ànno celebrato.Rammenterò per tutti don Peppino Marotta che usava dire che il ragú non si prepara, ma si consegue quasi che lo si raggiunga e/o conquisti alla stregua di una promozione o un successo!
Io mi limito a riportarne la ricetta, premettendo che il risultato finale dipenderà quasi esclusivamente dalla sensibilità e dalla … mano calda (lèggi: attenzione, preparazione, solerzia ed …amore) del cuoco o della cuoca.
Prima però di dare la ricetta con ingredienti e preparazione, soffermiamoci sulla espressione
PEPPïARE / peppïà che è voce onomatopeica indicante quella fase propedeutica del momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragú napoletano, allorché dal fondo della pentola dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che al culmine della tensione si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Il toscano traduce in maniera piuttosto imprecisa e superficiale: sobbollire.
Un ragú napoletano che sobbollisse e non peppiasse, non sarebbe un vero ragú.
Il segreto per far peppiare la salsa sta – oltre che nel tenere la fiamma piuttosto bassa- nel non turare completamente con il coperchio la bocca della pentola, ma nel poggiare il coperchio su di un lato della pentola mentre in direzione opposta occorre poggiare il coperchio non sul bordo della pentola, ma sul cucchiaio di legno posto di traverso l’imboccatura, per modo che si crei una piccola circolazione d’aria che impedisca alla salsa di attingere forza dal fuoco e le impedisca di precipitare nel bollore cosa che rovinerebbe tutta la faccenda.
Solo dopo che la salsa abbia peppiato per piú di un’ora e si sia verificato lo strano fenomeno della separazione dell’olio e dello strutto che affiorano in superfice lasciando il sugo di pomodoro nel fondo della pentola, si può esser certi che il ragú si sia conseguito e dopo una veloce rimestata con il fido cucchiaio di legno, si potrà spegnere il fuoco .
In chiusura rammenterò che la voce peppïà è resa nelle Puglie con il termine pippijà che, ad un dipresso, ripete l’onomatopea partenopea peppïà, mentre in Sicilia è usato il termine carcariare voce che, risultando essere un denominale di carcara ( calcara o grossa pentola), lascia presumere che l’azione significata dal vocabolo presupponga un’ebollizione così violenta tale che possa indurre il sugo ad uscir di pentola; non è pertanto il napoletano peppïare che come ò spiegato indica un bollore sí prolungato, ma calmo, direi quasi riflessivo, mai agitato o violento. In napoletano, in effetti, il verbo carcarïare/carcarïà è usato per indicare il rumoreggiare, l’agitarsi.
Rammento infatti ancòra che quando in napoletano vogliamo indicare un’azione agitata di un individuo che aneli a qualcosa e lo voglia subitaneamente, diciamo che, a proposito del bene desiderato, quell’individuo sta scarcarenno ossia è cosí agitato da tracimare l’ipotetica pentola del comportamento.
peppïà – pippijà = pipeggiare, fare il rumore della pipa ; voci onomatopeiche.
carcarïare/carcarïà =rumoreggiare; bulicare rumorosamente; voce verbale denominale di carcara che con derivazione dal lat. tardo (fornacem) calcaria(m), deriv. di calx.calcis ‘calce’ indica innanzitutto la fornace in cui si fanno cuocere i calcari per produrre la calce o il forno in cui si fonde la miscela di sabbia e soda usata per fabbricare il vetro e per traslato – nel caso che ci occupa – una grossa pentola, una caldaia, un grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa;
scarcarenno = tracimando la caldaia voce verbale (gerundio ) dell’infinito scarcarí = tracimar la caldaia denominale di carcara da un ex-carcara però con cambio di coniugazione che da un atteso excarcarïà che avrebbe dato il gerundio scarcarianno, passa ad excarcarí il cui gerundio è scarcarenno dell’espressione sta scarcarenno = sta figuratamente tracimando la pentola.
E adesso la ricetta
Ingredienti e dosi per 6 persone
Per la prima fase di preparazione, la lardellatura
100 g. di prosciutto crudo possibilmente grasso o di lardo di pancia,
50 g. di pancetta tesa affumicata,
Un ciuffetto di piperna
Pepe q.s.
Per la seconda fase
1,5 Kg. in un sol pezzo di primo o anche secondo taglio di manzo (spalla(pezza a cannella) o meno opportunamente magatello (lacerto))
1 Kg di brasciole (involti) da fette di locena (adeguatamente imbottite con sale fino, pepe, cubetti di formaggio pecorino, aglio e prezzemolo tritati, uvetta e pinoli e legate),
3 tracchiolelle (puntine) di maiale per complessivi 400 g.(facoltative)
600 – 800 g. di cipolle dorate vecchie
100 g. di strutto
50 g. di lardo di pancia
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva extravergine
50 g. di pancetta tesa affumicata
250 – 300 ml di generoso vino rosso secco
da 100 a 300 grammi di doppio concentrato di pomodoro
1 litro e mezzo di passata di pomodoro o 1 kg. e mezzo di pomidoro tipo Roma o san Marzano sbollentati, pelati e passati al passaverdure a buchi fitti.
Un ciuffetto di basilico
sale doppio q.s.
Preparazione
Prima fase
Lardellate la carne con il prosciutto, la pancetta, la piperna ed il pepe e legatela bene; imbottire le fette di locena con sale fino, pepe, cubetti di formaggio pecorino, aglio e prezzemolo tritati, uvetta e pinoli e legarle accuratamente.
Tritate grossolanamente , usando un affilatissimo coltello o una lama a mezza luna, su un tagliere di legno prima il lardo e, via via la rimanente pancetta, e le cipolle. Si può anche usare un tritacarne per questa operazione, sarà un’operazione piú rapida, ma la sconsiglio; infatti c’e il rischio di perdere il succo e con esso l’aroma delle cipolle.
Ponete tutto il trito nella casseruola possibilmente di coccio o di rame stagnato, insieme allo strutto ed all’olio e, a fuoco bassissimo, riscaldate fino a quando lo strutto non si sarà fuso e la cipolla comincerà appena a soffriggere. Aggiungete la carne, le brasciole ed eventualmente le puntine (tracchiolelle) di maiale.
Coprite e lasciate rosolare, sempre a fuoco bassissimo, rivoltando frequentemente le carni: questa fase a Napoli vien detta sturdí ‘a carne (stordire la carne) ed è fase importantissima con cui si mira a sigillare i pori della carne perché – nella cottura – quest’ultima non ceda tutti i liquidi e gli umori, risultando alla fine poco morbida ed eccessivamente secca.
Attenzione! Le puntine di maiale cuociono molto prima, quindi potrebbe essere necessario toglierle per qualche tempo dalla pentola.
Quando le cipolle cominciano a prendere colore, scoprite, mescolate e rivoltate la carne piú spesso, aggiungendo poco per volta il vino che dovrà evaporare tutto. Fatto questo, le cipolle saranno ormai ben rosolate, ogni traccia di liquido sarà sparita e non rimarrà che il grasso che sobbolle lentamente.
Questa prima fase vi vedrà impegnati per circa 2 – 2,5 ore. Durante tutto questo tempo non è consigliabile allontanarsi dai fornelli: le cipolle potrebbero bruciare, rovinando tutto.
Seconda fase
Aumentate, ma di poco, il fuoco, per dargli un po’ di forza, ma non molta: appena sufficiente ad accogliere gli altri ingredienti che sono freddi.
Aggiungete non piú di due o tre cucchiai di concentrato di pomodoro e fatelo soffriggere, fino a quando non diventi scurissimo.Fate molta attenzione: il concentrato deve sciogliersi nel grasso, prendendo sí calore, ma non bruciare!
Solo a questo punto va aggiunto tutto l’altro concentrato, sempre nelle stesse quantità, e cosí via, sempre con la stessa procedura, finché non l’avrete terminato.
Durante questa fase sicuramente le puntine (tracchiolelle) di maiale saranno cotte e vanno tolte delicatamente, per evitare che si spacchino aprendosi e disfacendosi.
Questa seconda fase (ancor piú delicata della prima perché dovrete controllare la cottura della carne e perché si corre il rischio che il pomodoro si attacchi) vi impegnerà per altre 2 o 3 ore.
A questo punto aggiungete tutto il passato di pomodoro,un po’ di sale le foglie di basilico spezzettate a mano e non piú di un mestolo d’acqua,e a pentola scoperta lasciate prima cuocere per circa un’ora e poi, incoperchiando come suggerito, lasciate peppiare (cuocere a fuoco bassissimo) per almeno un’ora e mezzo.
Se non l’avete già fatto, togliete tutta la carne e disponetela in un piatto: la rimetterete nel sugo a fine cottura.
La salsa sarà cotta quando vi apparirà densa, lucida, scurissima ed untuosa.
Verificate il sale, non dovrebbe essere necessario aggiungerne, rimettete la carne in casseruola e lasciate riprendere il bollore per pochi minuti.
Rifiniture e consigli
Dato il tempo di preparazione (almeno 7 ore) vi suggerisco di preparare il ragú il sabato, trasferendolo alla fine della cottura dalla pentola in una zuppiera di coccio o porcellana. Inoltre, lasciandolo riposare, il ragú matura e risulterà ancora piú gustoso.
Questa salsa va usata per condire 6 o 7 etti di maccheroni di zite spezzettati a mano in pezzi da 4 o 5 cm. cadauno.
Spolverare le porzioni impiattate con abbondante grana o (meglio ancora!) pecorino grattugiati e profumato pepe nero.
Servire come pietanza la carne affettata e le brasciole coperte con qualche cucchiaiata di salsa.
Il ragú si serve, quasi esclusivamente con la pasta grossa: maccheroni di zite spezzati a mano, ma si possono usare anche rigatoni, maltagliati rigati. Ottimi poi i paccheri, magari imbottiti con ricotta di pecora ma difficilmente si posson trovare.
Dopo un congruo piatto di ziti a ragú si può anche non mangiare altro, fatta eccezione, come detto, per la carne del ragú, con un contorno di verdura cotta; a Napoli si usano i friarielli (sorta di tenerissime cime di rapa, da soffriggere a crudo in padella con aglio, olio e peperoncino) che altrove non esistono, per cui si possono sostituire con bietole, spinaci o patate stufate.
Mangia Napoli! Facitene salute!
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