di Raffaele Mosca
È un territorio meraviglioso che non ti aspetteresti di trovare nel centro Italia: un po’ Borgogna, un po’ Toscana e un po’ alto Adige. Ma soprattutto è un’enclave produttiva che dimostra che non servono i grandi numeri per avere successo.
A distanza di tre anni dalla favolosa retrospettiva sui castelli di Jesi con Ian d’Agata, torno in questa parte delle Marche per scoprire l’altra faccia del Verdicchio: quella di Matelica con i suoi 260 ha vitati, una goccia nel mare magnum del vino bianco italiano… ma che goccia!
Conclusa la serie di appuntamenti online in epoca Covid, l’Istituto Marchigiano di Tutela, guidato dal vulcanico Alberto Mazzoni, ha finalmente organizzato un evento in presenza che ha avuto come protagonisti cinque pilastri della denominazione in verticale e una batteria di vini di gran parte dei produttori della zona in orizzontale. Il responso? Be’, non saprei stilare su due piedi una classifica dei migliori vini bianchi italiani in termini di qualità media, ma penso che il Verdicchio di Matelica agguanterebbe tranquillamente una delle prime posizioni.
Per capire Matelica, i suoi vini, i suoi volumi produttivi scarsi – circa 2 milioni di bottiglie contro le 14 dei Castelli di Jesi – bisogna innanzitutto conoscere il contesto sociale di una terra dove il vino si produce dai tempi dei Piceni, che spargevano acini d’uva nelle tombe dei guerrieri più valorosi, ma che per lungo tempo ha fatto forza su altri settori: primo tra tutti quello industriale, con la cosiddetta Silicon Valley degli elettrodomestici sulle sponde del fiume Esino. “ Questa è la terra di Enrico Mattei e di Aristide Merloni – ci spiega Roberto Potentini, storico enologo di Belisario e personaggio chiave del movimento vinicolo dell’Alta Vallesina – negli anni del boom economico i matelicesi sono diventati metalmezzadri: lavoravano in fabbrica a tempo pieno e coltivavano la vigna nel tempo libero”. Il germoglio della viticoltura come impiego full time è riaffiorato solo ultimamente, nel bel mezzo della sequenza di eventi infausti che hanno travolto il territorio: prima la crisi industriale, con la delocalizzazione delle principali aziende, poi il Terremoto del 2016 e infine la pandemia. Molte delle realtà attualmente attive in zona – non più trenta in tutto tra produttori di uve e vino – sono alla prima o alla seconda vendemmia, ma l’assaggio dei vini debuttanti dimostra che la strada intrapresa è quella giusta.
Compreso il background produttivo, bisogna anche sapere che l’Alta Vallesina ha caratteristiche pedoclimatiche pressapoco uniche. “ Matelica è a 40 km dal mare – specifica Potentini – ma è come se fossero 400. Questa, infatti, è l’unica vallata marchigiana perpendicolare alla costa, che si sviluppa da Nord a Sud anziché da ovest a est”. Il risultato è un clima estremo, con escursioni termiche da valle alpina – oltre 10 gradi tra giorno e notte – e il sole del Mediterraneo che scalda i grappoli. I vini, che provengono da vigne che superano di sovente i 600 metri d’altitudine, sintetizzano queste contraddizioni e sono tra i più eclettici di tutto il centro Italia: fini, slanciati, “rieslinghiani” in alcuni casi; molto più robusti e avvolgenti in altri.
Il Cambrugiano: il grande vino della cooperativa “altoatesina”
Ho citato in precedenza la somiglianza tra questa terra e l’Alto Adige. Non é solo una questione di paesaggio – le montagne fanno sempre da cornice ai colli vitati – ma anche e soprattutto di spirito consociativo che ha sempre costituito il punto di forza della denominazione. La cooperativa Belisario, fondata nel 1971, domina la scena produttiva, imbottigliando circa il 70% del Verdicchio di Matelica DOC e Riserva DOCG commercializzato ogni anno. Ma non è solo una questione di grandi numeri: oltre ai classici vini “base” in bottiglia simil-provenzale, la cantina propone da più di trent’anni una linea dedicata all’Ho.Re.Ca che vede nel Cambrugiano la sua punta di diamante. “ Il Cambrugiano nasce da un mio esperimento – spiega Potentini – Correva l’anno 1988 e io cercavo una cantina che mi permettesse di fare degli studi sulla criomacerazione (la macerazione a freddo delle uve che permette di estrarre colore e aromi, ndr). Belisario mi diede questa possibilità e creammo questo vino. Chiaramente da quel momento non me ne sono più in andato!”.
Al netto della tecnica di vinificazione, il Cambrugiano è forse la Riserva che meglio riassume la dicotomia sole mediterraneo – clima montano di questa valle con il suo profilo sempre ricco, robusto, ma sostenuto da acidità sferzanti solo in parte mitigate dalla fermentazione malolattica e dal passaggio in legno di una parte della massa (circa 10-15%). E poi è anche l’unico dei Cru di Matelica del quale si riescono a reperire ancora bottiglie con cinque-dieci anni sulle spalle che hanno tenuto molto bene e non costano un occhio della testa.
Mirum: il vino controcorrente che ha fatto la storia del Verdicchio
Dopo il Cambrugiano, viene il Cru dell’ azienda privata di riferimento dell’areale. È il Mirum de La Monacesca, realtà fondata dalla famiglia Cifola nel 1966. Aldo Cifola ci ha accolto nell’ex monastero benedettino che ospita la cantina per una retrospettiva esaustiva e ci ha spiegato i perché è i percome di un vino rivoluzionario, nato negli stessi anni di Cambrugiano, ma molto diverso. “ Mi diedero del pazzo quando uscii con Mirum, perché all’epoca andava di moda il bianco carta leggero e acidulo in stile Galestro Capsula Viola – spiega – questo, invece, è un vino che fin dagli esordi faceva più di 13 gradi alcolici e stava in acciaio per più di due anni. Subito dopo c’è stata la fase in cui tutti i bianchi italiani finivano in barrique e anche in quel caso noi siamo andati controcorrente. Insomma, di mode ne abbiamo viste tante, ma questo vino è rimasto sempre fedele a sé stesso”. Ed essere fedeli alla linea originale equivale, in quest’epoca, a sfidare la tendenza all’alleggerimento, allo snellimento che imperversa a Matelica e altrove, producendo un Verdicchio possente, caloroso, che chiede abbinamenti con piatti importanti come i vincisgrassi maceratesi (una sorta di lasagna senza besciamella e con le rigaglie di pollo) e che ha bisogno di non meno di un lustro d’affinamento per assestarsi ed esprimere al meglio il suo potenziale.
La doppia verticale
2019
Mirum
Il più giovane della batteria esibisce un profilo nitido, giovanile, veicolato da uno sbuffo alcolico che solleva aromi di camomilla e ginestra, pesca noce, mandorla dolce, pietra focaia. Fresco di messa in commercio, ha una bocca ricca e voluminosa con un discreto piglio acido a sostegno della massa e un finale in via di assestamento.
2017
Cambrugiano
Esuberante ed immediato: è dorato nel calice – ecco l’effetto della criomacerazione – e profuma di nespola e pera kaiser, mais tostato, ginestra, un accenno di miele. È cremoso e materico come l’annata impone, con una traccia alcolica non indifferente, ma anche un tratto erbaceo e una vena salina che prende il sopravvento nel finale tonico, piacevolmente ammandorlato. Una 2017 atipica e proprio per questo estremamente godibile.
2016
Cambrugiano
Pienamente dorato e più sussurrato del 2017: l’incipit è su toni di erbe officinali, che con l’evoluzione nel calice lasciano spazio a cenni d’idrocaburo, caramella d’orzo, miele d’acacia. È ricco e avvolgente, caldo quanto basta, ma ben sorretto dalla solita spinta salina e da un’acidità garbata, ben dosata che accompagna il lungo finale fumè. Splendido.
Mirum
E’ sé stesso anche in questo millesimo che, in molti casi, ha dato esiti anomali: esordisce con una zaffata fumè che lascia progressivamente la scena a fieno e rosa gialla, caramella al limone, mela renetta e salvia. È ricco, avvolgente: la massa camuffa un’acidità vispa, tonica, che allunga una progressione calorosa, carica di rimandi fruttati amplificati dal respiro alcolico profondo. Il famoso “bianco travestito da rosso”.
2014
Cambrugiano
L’annata è stata mediocre e il cambio di passo è deciso. Il profilo olfattivo è molto maturo: crema catalana, funghi freschi, miele millefiori e composta di pera. Molto più viva la bocca che mantiene una bella spinta acida, anche se i ritorni ossidativi di miele e mandorle tostate lo rendono un po’ impegnativo da mandar giù. S’incammina sul viale del tramonto, ma può ancora regalare qualche soddisfazione in abbinamento a un formaggio mediamente stagionato.
2013
Mirum
Profilo solare, mediterraneo: zagara e camomilla essiccata, scorza d’arancia e salvia, qualche traccia boschiva a preannunciare un sorso voluminoso, compassato, denso di frutto e di miele, ma tenuto in piedi da un discreto nerbo acido-sapido. È più imponente che raffinato, forse un po’ appesantito dall’annata segnata da temperature estive molto alte, ma può reggere abbinamenti difficili come quello con le linguine alla bottarga.
2012
Cambrugiano
Solare, goloso: sa di albicocca e ananas, cannella, burro e miele d’acacia, senza alcuna macchia ossidativa. Meravigliosa la progressione rotonda, cremosa, rassicurante, che, però, è dinamizzata da una bella spinta sapida e dalla giusta acidità. Ha ancora parecchi anni di vita davanti a sé.
Mirum
Aldo ci riferisce che l’annata è stata strana, con un’ estate piovosissima e fresca e un settembre più soleggiato. Il vino esordisce con un tono singolare di cenere arsa e qualche sbuffo alcolico; poi tira fuori aromi più delicati di melisa e zafferano, miele millefiori, mandarino, erbe officinali, qualche traccia boschiva. È molto più dinamico e scattante del Mirum ‘13, sapido quanto basta e citrino sul fondo, sempre robusto e caloroso – ma senza eccessi – e lungo nei rimandi mielati e di buccia d’agrume che delineano un finale decisamente profondo. Molto diverso dal Cambrugiano, ma entrambe le aziende hanno partorito un grande vino in un millesimo che sulla carta non sembrava per niente facile.
2011
Meridia
Un intruso veramente interessante: è il gemello diverso del Cambrugiano, prodotto da uve “appassite in cantina” che gli danno un tocco di morbidezza in più. In questo caso il profumo idrocarburico e speziato sa di Mosella – o di Timorasso – e il sorso procede dritto, schietto, verticale in apertura e leggermente più morbido nella chiusura comunque vivida, scattante, molto saporita.
Mirum
Qui viene meno il candore giovanile ed emerge un timbro più scuro. Si fa strada l’idrocarburo tra cenni di senape e lavanda, origano, sasso di fiume*. L’incipit è canonicamente morbido, confortante, ma il corpo e più leggero e l’acidità più in lizza. Forse c’è meno stratificazione rispetto ai millesimi precedenti, ma la scorrevolezza è notevole e s’intuiscono ulteriori margini di evoluzione.
* Una definizione ripetuta più volte dai produttori matelicesi.
2009
Mirum
Il tempo lo ha plasmato senza sciuparlo: la parte fruttata è molto matura, quasi sciroppata; c’è del miele, del toffee e della resina, ma le dolcezze sono smorzate da una traccia amarostica – di genziana e di radici – che lo rende particolarmente intrigante. Il sorso svela qualche cenno di ossidazione, ma continua a mantenere un bel frutto, un’acidità abbastanza viva e il solito timbro sapido che dà sprint. Ha appena iniziato la fase calante, ma regala ancora discrete soddisfazioni.
2008
Cambrugiano
Integro, con un fondo di pietra focaia e idrocarburo che va a complementare la parte dolce di vaniglia e cioccolato bianco, pesche sciroppate. La materia del sorso è tanta e molto avvolgente; l’ aciditá è in sordina, ma la parte sapida riesce a tenere in piedi un finale ampio, goloso, disteso. Ha raggiunto il picco, non migliorerà ulteriormente, ma potrebbe rimanere in forma per diversi anni.
1995
Cambrugiano
Evoluto e rassicurante: profuma di zucchero bruciato e caffè, miele amaro, crema catalana, erbe aromatiche a profusione. Ha mantenuto ancora un po’ di frutto in bocca, ma a sorprendere è l’acidità intonsa, quasi giovanile, che lo rende ancora abbinabile ai funghi porcini, al tartufo e un Pecorino a media stagionatura. Qualcuno domanda a Potentini perché il 95’ appare più fresco, più dinamico del 2008. La risposta è perentoria: “ nel mezzo il clima è cambiato completamente”.
1994
Cambrugiano
Più sottile, ma paradossalmente più vitale della ‘95: profuma di mandorla tostata, anice e curcuma, tintura di iodio, genziana, tabacco biondo e cenere. Cresce d’intensità nell’arco di mezz’ora e spiazza in bocca con un nerbo acido-sapido pulsante, poche concessioni sul lato di morbidezze e un finale appagante su toni di pietra focaia e creme bruleè. Ha meno polpa del 95’, ma trasuda vitalità e potrebbe stare bene in accoppiata con dei piatti di mare molto saporiti: penso, per esempio, ai crudi stagionati di Moreno Cedroni.
Non finisce qui: a breve pubblicheremo il racconto delle altre tre verticali.
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