di Andrea Guolo
Quando c’è un ricambio generazionale in cucina, si tende a parlare di “rivoluzione”. Ma quel che ha messo in atto Max Mascia al San Domenico di Imola non può essere definito così. Si tratta piuttosto di un’evoluzione garbata, attuata nel pieno rispetto di chi lo ha preceduto – Nino Bergese prima e lo zio Valentino Marcattilii poi, nomi che hanno fatto la storia della cucina nazionale, senza dimenticare quelli del fondatore Gianluigi Morini e di Natale Marcattilii, quest’ultimo tuttora presente in sala – e con un forte senso di responsabilità non solo verso il locale, ma anche e soprattutto verso il gusto e le esigenze dei propri clienti. E il bilancio è più che positivo, come dimostrano i risultati raccolti dal ristorante due stelle Michelin (lo è dal 1977, il più antico bistellato d’Italia) anche dopo la pandemia, quando il “pienone” è diventato quasi una regola, perfino nei gironi infrasettimanali.
Ti aspettavi così tanto lavoro con la riapertura?
Un po’ sì, perché dopo tutto quel tempo passato a casa era prevedibile che i nostri clienti di riferimento – che nei mesi precedenti avevano comunque lavorato e non avevano avuto la possibilità di spendere – uscissero tutte le sere al ristorante, anche per un mese di fila… Ma alla fine è andata anche meglio delle previsioni. Abbiamo riaperto praticamente subito, ed è stata la scelta giusta.
Riaprire subito vi ha portato più clienti?
Su 37 ristoranti due stelle Michelin presenti in Italia, a maggio eravamo aperti in sette. E all’epoca credo che nessun tre stelle fosse tornato in attività. Così ci siamo accorti cos’è il pubblico dei tre stelle… parliamo di clienti che spendono il triplo rispetto alla media e che magari, in un mese, sono tornati da noi tre o quattro volte. Maggio è stato un mese super e anche giugno e luglio sono andati molto bene. Alla fine, abbiamo chiuso questi tre mesi sopra i livelli del 2019!
L’assenza del turismo internazionale non ha pesato?
Siamo a Imola, non a Venezia o a Firenze. L’assenza di quel tipo di clientela pesa per i ristoranti delle città d’arte o delle metropoli internazionali, basti vedere la situazione in corso a Parigi dove i ristoranti tre stelle non riescono a riaprire e non perché non lo vogliano, ma perché non hanno più il loro pubblico di riferimento. Per il San Domenico, la clientela internazionale ha sempre rappresentato poco e se un tempo poteva essere un fatto spiacevole, oggi certamente non lo è. Da noi capitano raramente cinesi, russi, arabi… Arrivavano invece gli americani, perché fino agli anni ‘80 il San Domenico era presente anche a New York e l’antica fama è rimasta. Ad ogni modo il nostro cliente di riferimento è quello dell’Emilia Romagna e delle regioni circostanti. Una prossimità che nell’ultimo periodo si è piuttosto ampliata.
Quando si tornerà ai livelli pre-covid?
Certamente non a fine anno, perché nei primi 120 giorni siamo rimasti aperti ben poco. E non basterà tutto il 2022 per tornare alla normalità.
Cosa pensi del green pass?
Ne prendo atto, senza timori. Del resto i nostri clienti sono professionisti sempre in viaggio, e sono senz’altro tutti vaccinati.
C’è stato un ricambio generazionale tra i vostri clienti?
Questa è una delle cose più belle che ci siano capitate negli ultimi anni. Nel 2013, in una serata morta come quella del mercoledì, lanciammo la formula Mercoledì 70, con un menu al prezzo speciale di 70 euro per coloro che erano nati dopo il 1970, e in quel menu erano presenti tutti i nostri piatti più importanti, compreso l’Uovo in raviolo. Da allora, per sei/sette anni, il mercoledì era diventato una delle nostre serate di massima affluenza. Capitavano anche studenti diciottenni, magari della scuola alberghiera, per provare l’esperienza del San Domenico, e spesso l’esperienza era un regalo che facevano loro i genitori, come se fosse un investimento per la loro cultura. Poi quei ragazzi e quelle ragazze lo dicevano agli amici e alle amiche, e così si spargeva la voce e altri prenotavano. E poi sono arrivati i social, le storie di Instagram, le recensioni su TripAdvisor… Così quella clientela è sempre aumentata nel corso degli anni e oggi rappresenta un punto di riferimento per far crescere il valore di un brand come il San Domenico, che esiste da 51 anni e deve poter continuare a crescere.
Nel frattempo l’esperienza del San Domenico è stata esportata in Sardegna, all’interno del Forte Village. Come sta andando?
Siamo ormai al quarto anno e le soddisfazioni non mancano. Nel 2020, per esempio, in sala avevamo mediamente l’80% di clienti italiani e il 20% di esteri, il contrario di quanto accadeva nelle stagioni precedenti, quando magari a cena avevamo gli uomini più ricchi della Russia. Ma poi i russi vengono a Imola? Raramente. Gli italiani invece sì, e raccontano ai loro amici l’esperienza provata in Sardegna… così la voce si diffonde e cresce l’interesse per il San Domenico.
Ci sono le condizioni per creare qualche altro San Domenico?
Il San Domenico è uno solo, ed è a Imola. Abbiamo accettato la proposta di Forte Village perché si trattava di due soli mesi, uno dei quali è agosto quando a Imola siamo chiusi per ferie. Mi considero chef e imprenditore allo stesso tempo, ma escludo formule che comprometterebbero l’unicità del San Domenico. E poi io devo essere presente qui. Si possono creare eventi esterni, ci si può spostare per iniziative una tantum come le due serate che farò a settembre a Venezia con Marriott, ma lo si fa soltanto se è funzionale alla crescita del brand San Domenico, non certo della fama di Massimiliano Mascia.
Cos’è cambiato in cucina con il tuo ingresso?
Il passaggio da Valentino a me è stato graduale, perché siamo un ristorante di famiglia dove la continuità rappresenta un valore. Poi è naturale che ora le scelte siano improntate sulla base del mio pensiero.
E qual è l’impronta di Max Mascia?
Una cucina più fresca, più smart, in linea con i tempi che sono cambiati e pertanto imponevano dei cambiamenti. E il San Domenico ha risposto. Se è ai vertici da 51 anni, è perché ha saputo seguire il mercato, intercettare le richieste, adattarsi alle nuove situazioni senza mai esagerare, attrarre una clientela più giovane riuscendo a comunicare la propria identità e utilizzando i nuovi strumenti a disposizione.
L’Uovo in raviolo è certamente il piatto-icona del San Domenico, e appartiene alla storia del ristorante e anche della gastronomia italiana. Tra i tuoi nuovi piatti, ce n’è uno che consideri un manifesto della tua innovazione?
La nostra non è una cucina innovativa, si basa su tecniche e preparazioni consolidate e deve rispettare le esigenze e i gusti del cliente. Trovo che oggi i menu siano lo strumento che lo chef utilizza per elogiare se stesso, ma secondo me uno chef non deve dimostrare nulla: io lavoro per il San Domenico e lavoro per il cliente, non per me stesso.
Come lo vedi il San Domenico tra dieci anni?
Sono una persona esigente e non mi accontento mai… Questo ristorante ha una grande storia, ha saputo superare un periodo di difficoltà e lo ha fatto rimettendosi in discussione – un fatto per niente scontato, quando si è presenti sul mercato dagli anni Settanta – ed è arrivato alla prova della pandemia in buona salute. Siamo sulla giusta strada, ma proprio perché sono esigente ora vorrei qualcosa in più. E non intendo la terza stella, perché non ho l’ossessione delle stelle e perché è una decisione che non mi riguarda. Dobbiamo continuare a migliorare, giorno dopo giorno, perché quando migliorarsi diventa un’abitudine, poi si riesce a farlo in maniera automatica e naturale. Mi piacerebbe inoltre aggiungere il tassello dell’ospitalità. Penso a qualcosa di piccolo, due/tre suite, non certo a una sorta di Casa Maria Luigia qui a Imola. Così, oltre al pranzo e alla cena, potremo perfezionare l’offerta per la colazione che abbiamo già lanciato durante l’ultimo anno, una colazione di alto livello qualitativo.
Il delivery nell’alta ristorazione è morto?
Io lo spero. A livello economico è servito meno di zero, è stato un gioco in rimessa ed è andato bene solo per due ragioni: la prima è che ha permesso ai ristoranti di svuotare i frigoriferi rimasti pieni quando sono arrivati i decreti di chiusura, la seconda è che così almeno il personale è rimasto in attività, continuando a guadagnare, e non ha perso il ritmo che è stato poi necessario per affrontare una ripartenza così veloce. Ma ora basta! Quando solo penso a quei contenitori usa e getta, divento pazzo…
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