di Sergio Miravalle*
Una generazione di vignaioli sta andando via, ma oggi morire a 65 anni è davvero troppo presto. Il mondo del vino italiano perde un solista eccezionale: riportiamo per i nostri lettori l’articolo dell’amico Sergio Miravalle, responsabile della redazione della Stampa ad Asti, profondo conoscitore del territorio langaiolo e dei suoi protagonisti. La foto è tratta dal blog Mauro Erro. Voglio solo ricordare che Cappellano fu il compagno scelto da Franco Ziliani nel dibattito con Rivella sulla questione di Montalcino e lo potete rivedere qui. Per questo ho scelto di lasciare sul suo blog il mio pensiero personale. Ecco l’articolo di Sergio.
Avrebbe voluto restare a casa sua, «perché – ha spiegato ai medici dell’ospedale di Alba – dalla mia finestra vedo le vigne». Dopo l’operazione lo avrebbero accontentato, ma il suo sorriso, da eterno bambino, si è spento ieri. E’ morto così a 65 anni, Teobaldo Cappellano, gigante buono del Barolo, l’uomo che ha custodito come una reliquia la formula originale del Barolo chinato, elaborata nel 1895 da Giuseppe Cappellano, suo zio, che era speziale di vaglia e vignaiolo per passione. Lascia la moglie Emma e il figlio Augusto di 39 anni che lo aiutava in azienda. Due anni fa la Regione Piemonte lo segnalò a Verona e ricevette al Vinitaly il premio «Cangrande» come benemerito della viticoltura.
«Sono un barolista chinato, ma cerco di avere sempre la schiena diritta» scherzava «Baldo» con gli amici, dall’alto del suo metro e novanta. Dalle sue cantine di Serralunga d’Alba, che confinavano con i Tenimenti di Fontanafredda, ne uscivano poche migliaia di bottiglie l’anno di quel «chinato», dall’etichetta blu scuro, con scritte dorate sempre uguale: simbolo del suo modo di rispettare la tradizione. Cappellano non amava le deroghe e le fughe in avanti. Negli anni della curiosa sfida più mediatica che reale tra «innovatori» e «conservatori» del Barolo si schierò senza esitazioni con Bartolo Mascarello, il «purista». E’ significativo che anche il patriarca del Barolo, quando sentì la morte avvicinarsi abbia chiesto e ottenuto di tornare in paese, tra le sue vigne.
La vita di Teobaldo Cappellano si può raccontare come un romanzo. Negli anni scorsi quando riuscì a tornare nella sua Africa spiegò: «Voglio rivedere i cieli di Asmara quelli della mia gioventù». Lasciò le colline di Serralunga e i suoi 3 ettari di vigne di Nebbiolo e partì per Asmara sull’altopiano eritreo, dove era nato nel 1944. Teobaldo in Africa ci aveva vissuto per 26 anni, fino al 1970. La sua famiglia aveva seguito l’evolversi della prima colonia italiana. Il nonno andò in Eritrea nel 1892, il padre Augusto ci tornò nel 1936. Misero su un’impresa di import-export, specializzata in bevande e vini. «Li producevamo utilizzando i grappoli d’uva passita che arrivavano dallo Yemen. Ogni volta che attraccava la nave era come se ci fosse la vendemmia. Su quelle etichette finivano nomi conosciuti dagli italiani: Chianti, Barbera, Grignolino, cambiava solo la tonalità del colore. Noi però non ci sentivamo sofisticatori – spiegava Baldo – tutti sapevano che non erano i vini veri, ma ci si accontentava lo stesso, così direi per nostalgia. Il Barolo no, quello non lo abbiamo mai “copiato” per rispetto».
Poi arrivò la guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia e i Cappellano dovettero lasciare tutto e tornare in Italia. La vita riprese a Serralunga il paese d’origine della famiglia che ai Cappellano ha già dedicato anche una piazza. E’ intitolata a Giuseppe quello zio farmacista che trafficando nel retrobottega tra infusi e preparati galenici riuscì a stabilizzare la «concia» di erbe ed estratti per far nascere il Barolo alla china, una via di mezzo tra un Porto e un amaro. Teobaldo, ha sempre continuato a produrlo quel «chinato» anche quando sembrava essere passato di moda. Non si stupì della riscoperta e del boom attorno ai chinati e non si preoccupò delle molte imitazioni.
Sollevare un bicchiere di Barolo chinato e sorseggiarlo piano piano dopo averne colto il rosso intenso e l’aroma suadente, sarà il modo giusto per ricordare Baldo.
*da La Stampa di oggi, pagina 22
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