A grande richiesta:-)
di Gaspare Pellecchia
Abbiamo tentato di preparare il ragù napoletano secondo la ricetta di Lello Bracale (che ci perdonerà per l’infinita serie di inesattezze). Ecco il resoconto.
La spesa di carne
Si parte il giorno prima, alla ricerca di vari ingredienti, tra cui il pezzo (1kilo circa) di lòcena, cioè di soppelo, il pezzo bovino situato tra la punta di petto e la clavicola, un pezzo adattissimo alla braciola a lunga cottura; pezzo che verrà appena battuto e ripulito (ma non troppo!) delle lunghe fibre bianche, che resisteranno bene alla cottura. L’altro pezzo è la spalla (1kilo o più), sempre bovina, di più facile reperibilità: andrà lardellato con grasso di prosciutto e timo selvatico. Procuratevi lo spago per legare il pezzo e del filo di cotone bianco per legare le braciole (io ne ho fatte quattro). Procuratevi tre costine di porco, belle grosse, non fatevele spezzare e soprattutto, a casa, controllate che non vi siano ossicini penzolanti.
Le cipolle.
Tante, devono essere quelle ramate, vecchie, belle e tonde tonde. Niente sedano, né carota, giammai! Servirà un po’ di timo (noi non l’avevamo: amen), del buon prezzemolo fresco e dell’aglio, vero aglio italiano possibilmente.
Lo strutto e il lardo.
Ecco, roba di un tempo? Comunque sia iniziate a pensarci.. dove reperirli? Noi al supermercato. Ah, serve un bicchierone d’olio buono. E del vino (noi abbiamo messo un bel Montepulciano, generoso e non troppo dispendioso.. c’è chi dice di usare il vino bianco, persino aromatico, boh!).
Salumeria.
Né meno laboriosa sarà la ricerca di un buon caciocavallo podolico (che andrà ad arricchire il ripieno delle braciole assieme a del buon pecorino romano), della pancetta, del prosciutto grasso grasso (per lardellare il pezzo).
Tre tipi di pomodori.
Noi abbiamo volutamente impiegato insieme quasi un tubetto intero di doppio concentrato, più quasi un kilogrammo di pomodori freschi scottati, pelati e setacciati, più quasi un’intera bottiglia di passato. Fate voi, comunque sia se la carne è il re, il pomodoro è la regina di un buon ragù.
La pasta.
Procuratevi gli ziti (ovviamente parliamo di pasta secca di semola): una specie di tubi di pasta, che andranno spezzati a mano, in segmenti lunghi tre dita, circa.
La pentola.
Serve una bella pentolona grossa, o di alluminio o di rame o di coccio. Può essere utile uno spargifiamma da mettere sotto durante le fasi di “pippiatura”. No all’acciaio. Ah, servono due belle cucchiare di legno grosse. Poi capirete. Anzi, ve lo diciamo adesso: il problema (e quindi, dialetticamente parlando, il pregio) del ragù è il seguente, tutto il resto sono chiacchiere: la carne s’azzecca. S’azzecca sotto, si bruciacchia per qualche decimo di millimetro cioè per il contatto prolungato col fondo rovente. Ma questo è anche il quid. E’ la reazione di Maillard: cioè il sapore vero lo dà proprio questo fenomeno, la micropellicola marrò scuro che voi andrete a sfottere a più riprese, staccandola dalla carne e mettendola a giro nel sugo. Perciò vi consigliamo le due cucchiare. Di legno.
La filosofia delle tre carni.
Nelle tre carni che compongono il ragù napoletano noi rintracciamo tre momenti della storia dell’umanità nel suo rapportarsi con la natura, con un evidente richiamo alle tre ere dell’umanità; cioè il periodo primordiale della caccia, quello successivo della pastorizia ed infine quello della tecnologia, cioè l’agricoltura, che si fondono così insieme:
-l’anima selvaggia delle puntine di porco (il rimando al cinghiale, e quindi alla caccia, è evidente) lasciate così come sono, immerse nel sugo senza abbellimenti;
-l’anima pastorale/agreste delle braciole di lòcena (che rimandano, probabilmente, alle braciole di pecora), braciole “conciate” con passa, pinoli, aglio, prezzemolo, formaggio podolico e pecorino (appunto!), pancetta, essenzialmente;
-l’anima agricola, e cioè, per eccellenza il manzo, il pezzo di spalla, di muscolo che ha arato campi, possibilmente lardellato e profumato.
Sequenze essenziali.
Bagnare l’uva passa in acqua tiepida e po’ di vino; tostare i pinoli.
Allestire le braciole: preparare la farcia opportunamente, riempirle, legarle strette strette con decine di giri di cotone.
Lardellare il pezzo di spalla con stecche di grasso di prosciutto ed eventualmente ri-legarlo.
Preparare il fondo con olio, lardo, strutto e cubettini di pancetta.
Pulite e tagliate alla buona le cipolle.
Andate sul fuoco: fondo, quindi cipolle. Quando ben trasparenti, le carni. Qui è possibile una variante: prima le carni e poi le cipolle, per maggiormente far prendere calore alla carne stessa. Fate voi.
Tra alzate e abbassate di fiamma, tra dubbi e incertezze, lentamente, vedrete come in due ore si formerà la giusta crosta alla carne e le cipolle saranno divenute marrò chiaro, il tutto risultando quasi asciutto.
E’ il momento della prima sfumata di vino, che staccherà ulteriormente il sapore intorno alle carni e ridarà umidità al tutto.
Seconda sfumata di vino, in totale mezza bottiglia.
Quando tutto, sempre a fuoco basso, sarà asciutto (altre due ore) aggiungete il doppio concentrato, il passato e i pomodori freschi, mano mano, alzando il fuoco o abbassandolo per mantenere un calore costante.
Passeranno altre due ore a fuoco sempre basso, tra alzate e abbassate di fiamma, ma la pippiata ancora non comincia? No problem, levate le carni e ponetele in una bastardella con coperchio, alzate il fuoco e scrostate il fondo della pentola. Scrostare-Scrostare-Scrostare il fondo della pentola per raccogliere i sapori e rimetterli in circolo, SCROSTARE: verbo che vi ha accompagnato e vi accompagnerà per tutta la cottura del ragù.
Un mestolo d’acqua calda potrà servirvi? Speriamo di no.
Grosso modo, quando il grasso inizierà a emergere, vi accorgerete che è il momento, tanto atteso della pippiata: abbassate il fuoco al minimo possibile (o anche meno se ci riuscite) e lasciate uno spiraglio d’aria tra il coperchio e la pentola. Passeranno tre-quattro ore. Vedrete diventarlo color legno di palissandro, rosso mattone quasi marrò, ben addensato, molto lucido, brillante e untuoso, come in letteratura.
Il ragù è pronto.
Cercate di non salare mai, né pepare. Potrete filtrarlo -a maglia larghissima- per ingentilirlo e condire gli ziti (spolverati con pecorino grattugiato) in una capace zuppiera; servirete le carni a parte.
Fàtene salute e beveteci sopra un grande Taurasi, come quello 2006 di Luigi Tecce. Caro ma eccellente.
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