Il Porto Dei Sapori di Biagio E Giovanni Ugon
Molo Immacolatella Vecchia
(all’interno del Porto, ingresso Varco Duomo)
Tel. 331 2155466
Aperto solo a pranzo, dalle 10 alle 17,00.
A cena solo su prenotazione
Ferie: una settimana in agosto
Il porto di Napoli, come in tutte le città d mare, è parte integrante della vita e delle origini di un popolo, qui si sviluppano scambi e insediamenti commerciali utili alla sopravvivenza stessa del porto. La fondazione di Napoli e del suo porto risalgono presumibilmente, al periodo della colonizzazione greca. Nel IX sec. a.C. un gruppo di navigatori di Rodi approdò sulle sue coste e tra il VII e il VI sec. a.C. fu fondata la colonia greca sull’Acropoli di Pizzofalcone. Nel 475 d.C. gli abitanti di Cuma fondarono Neapolis (città nuova) nella parte orientale della città originaria. Da scalo principalmente militare dell’epoca greco-romana, il porto si aprì sempre più ai traffici marittimi.
Il primo periodo di sviluppo e prosperità per il porto partenopeo, caratterizzato da un notevole incremento del commercio, risale alla dominazione sveva di Federico II. Il re, abolendo le dogane interne e adottando misure liberatorie, agevolò gli scambi e l’arrivo degli stranieri, concedendo loro privilegi e facoltà di intraprendere attività nell’ambito del Regno. Napoli esportava lino, i nastri di Cava dei Tirreni, le sete, le lane, i prodotti agricoli; il porto divenne una stazione d’obbligo per le navi che solcavano il Tirreno. Furono poi gli Angioini (Carlo I e Carlo II) a rendere Napoli la “prima città del mondo” per gli scambi con l’Europa e per l’arrivo dei capitali di banchieri toscani e sardi.
Durante il regno di Carlo I d’Angiò, salito al trono di Napoli e Sicilia nel 1266 dopo la sconfitta degli Svevi , spostò la capitale da Palermo a Napoli e diede il via ad opere di grandissimo rilievo, come la costruzione della nuova reggia di Castelnuovo, il Maschio Angioino di oggi. La città divenne la più popolosa e la più ammirata d’Europa, vi confluivano artisti e poeti di ogni genere, da Tommaso d’Aquino a Giotto, Petrarca e Boccaccio. Con gli Angioini, e per tutto il secolo XIV, il porto si delineò, da Castelnuovo al Carmine, in quella configurazione sopravvissuta quasi fino ai nostri giorni.
A differenza delle precedenti dominazioni, gli Aragonesi (1442-1500) affidarono il comando esclusivamente ai cittadini più meritevoli, eliminando il capitale straniero dal Regno. Essi si dedicarono soprattutto all’ampliamento ed alla fortificazione del porto (costruzione del primo faro – 1487), si prodigarono nello sviluppo dei mestieri marinari e diedero grosso rilievo al commercio.
Solo con Pietro di Toledo, Napoli riuscì a risalire la china. Si deve a quest’ultimo una delle prime iniziative ecologiche della storia a tutela delle acque portuali dall’inquinamento, infatti, negli anni dal 1532 al 1553, il viceré don Pietro Toledo incaricò Pietro Antonio Lettieri di studiare le possibilità per incrementare la fornitura di acqua potabile per la città. Lettieri era un tecnico esperto in topografia e dopo 4 anni di studi, avendo ricostruito il percorso dell’antico acquedotto della famosa acqua di Serino, ne propose il completo recupero come possibile soluzione per la penuria d’acqua.
A lui si deve la costruzione della strada di Toledo che da Piazza San Ferdinando arriva sino a Piazza Dante, realizzata intorno a 1535, allo scopo di ricoprire la fogna ad alveo aperto che da Montesanto, raccogliendo le acque meteoriche ed i liquami della collina del Vomero, proseguiva verso il mare. Venne, così, finalmente nascosto alla vista il famigerato “Chiavicone” che, dopo i lavori stradali di ricopertura, divenne un vero e proprio tunnel di acque di scarico ed alle cui vicende restano legati tanti episodi, tragici e singolari, connessi alla precarietà sanitaria della città. La strada che nacque costituì un vero successo, assolutamente imprevisto da colui che ne aveva promosso la realizzazione, non solo fu ben accolta dalla cittadinanza ma, dal giorno della apertura, si determinò la modifica dell’intero sviluppo urbanistico, in rapporto alla “calle major” che il Vicerè don Pedro Alvarez de Toledo aveva voluto nel centro urbano.
Alla morte di Pietro di Toledo (1570) ,il vicereame godeva di condizioni floride in materia di commercio. L’altra faccia della medaglia era però costituita dalle condizioni di vita pessime degli abitanti della città: strade insicure e infestate dai briganti. L’atteggiamento sempre più sanguisuga degli Spagnoli, i famosi Vicerè, così ben descriti nel romanzo del 1894 di Federico De Roberto,
le scorribande dei Turchi per il Mediterraneo e le carestie colpivano e impoverivano sempre più la popolazione, una società che andava a rotoli. Si arrivò alla rivolta guidata da Masaniello, ovvero Tommaso Aniello d’Amalfi (detto Masaniello), che vestiva sempre con abiti da umile pescivendolo, camicia e calzoni di tela, con un cappello rosso alla marinara e camminava sempre scalzo.
A peggiorare la situazione seguì la peste nel 1656. Il popolo era ormai allo stremo, l’economia a rotoli, la corruzione e lo sfascio amministrativo diffusi. Un quadro desolante che era destinato a cambiare soltanto nel 1734 con l’arrivo dei Borboni.
Il primo grande ampliamento del porto di Napoli risale proprio alla prima metà del XVIII secolo grazie ai Borboni, prima nella persona di Carlo III e poi del suo successore Ferdinando IV, il re che adorava mangiare i maccheroni al sugo a teatro con le mani, costringendo i cortigiani a fare lo stesso.
Fu un momento di grande splendore per lo scalo partenopeo che, con Parigi e Londra, divenne la prima delle capitali europee. In questo periodo di grande incremento per i traffici, furono emanate ordinanze che regolamentavano la navigazione e per la prima volta concesse patenti nautiche. A Napoli attraccavano navi veneziane, genovesi, inglesi, turche, danesi ed altre. Anche la flotta militare mercantile, affidata all’intervento del ministro Acton, fu resa molto più potente. Durante l’alleanza del Regno di Napoli con l’Inghilterra l’economia del porto attraversò un periodo molto meno prospero dovuto al fatto che gli inglesi avevano interrotto l’esportazione del grano e introdotto invece sul mercato i propri prodotti manifatturieri a prezzi molto competitivi. Nel giro di una decina di anni il fronte delle alleanze si capovolse di nuovo. Il periodo del terzo ritorno dei Borboni (1815-1860) fu prospero per l’economia e per il porto di Napoli e nel 1818 partì dal golfo partenopeo verso Marsiglia la prima nave a vapore del Mediterraneo.
Ferdinando I e poi Francesco I riordinarono la marina mercantile ed i traffici marittimi apportando modifiche nella legislazione a suo tempo emanata da Carlo III. A Francesco I si deve l’internazionalizzazione del settore: Napoli fu il primo Stato italiano ad aprire a Washington un “Consolato Generale Napoletano negli Stati Uniti d’America”. La città riallacciò così rapporti ufficiali col mondo islamico e turco ed ebbe libero transito nel Mar Nero. Tra il 1826 ed il 1836 con Ferdinando II si realizzò, nella darsena che oggi si chiama San Vincenzo, un porto militare. Tra il 1850 ed il 1852 fu costruito il primo bacino di carenaggio italiano in muratura e sorse, fra i moli Angioino e San Gennaro, il primo faro lenticolare d’Italia. Al momento dell’unità d’Italia, la situazione della flotta e del porto era florida e l’ex Regno delle due Sicilie godeva di una grande prosperità economica. Ma tutto il potenziale finanziario, che avrebbe dovuto rendere Napoli un moderno centro industriale, andò quasi prevalentemente ( tanto per cambiare) al Nord. Ben presto la popolazione divenne sempre più povera e l’emigrazione inarrestabile. Anche il movimento commerciale decrebbe tanto da essere cinque volte al di sotto di Genova, assorbendo a stento la dodicesima parte del commercio nazionale.
Durante il ventennio fascista il porto di Napoli fu sede di importanti lavori urbanistici e infrastrutturali. Fu positivo il periodo tra il primo dopoguerra ed il 1936, durante il quale il volume del movimento marittimo aumentò notevolmente e Napoli occupava il terzo posto nella classifica dei porti nazionali. La Stazione Marittima di Napoli, terminal portuale della città, è stata costruita proprio in epoca fascista. L’opera è monumentale, (la più vasta del mondo con 12 km quadrati di superficie e 10 approdi per navi di grande e medio tonnellaggio) ricoperta di marmo, in linea d’aria, di fronte Palazzo San Giacomo e tra i due vi erano i giardini di piazza Municipio. Con questi spazi immensi , si conferma la volontà del regime fascista di assegnare un nuovo ruolo al Porto di Napoli divenuto uno degli scali più importanti del Mediterraneo.
Napoli nasce come città di mare, tuttavia, è triste ricordare quanto sia ancora attuale che “Il mare non bagna Napoli” come scriveva Annamaria Ortese nel suo omonimo romanzo pubblicato nel 1953.
Nel XIX secolo si definisce con la colmata innanzi la città storica, l’allontanamento definitivo del porto dalla città. Dal 1860 alla metà del XX secolo si conferma la disarticolazione tra città e porto: ciascuna entità si sviluppa in modo distinto. Non si hanno collegamenti viari e ferroviari con i nuovi poli urbani. La rivoluzione dei trasporti marittimi, l’evoluzione delle tecniche portuali, sono i fattori principali della separazione città-porto. Il 12 ottobre 1999 è stato firmato un Protocollo d’intesa tra l’Autorità Portuale di Napoli ed il Ministero per i Beni e le Attività culturali, Soprintendenza per i Beni Ambientali Architettonici di Napoli e Provincia per il “Recupero e Risanamento del Molo San Vincenzo”.
Il Porto di Napoli viene vincolato paesaggisticamente a quella data con tutti gli edifici di oltre 50 anni e si sono spesi ad oggi 16 Miliardi dal 1999… ma, l’ambiente di eccezionale bellezza esigerebbe una riqualificazione ad uso ricreativo, di passeggiata culturale e panoramica. E’ necessario un più ampio impegno progettuale con una visione ambiziosa di trasformazione radicale della zona centrale marittima di Napoli, che si ispiri alle grandi progettazioni di riacquisizione d’identità d’area, già intraprese in città quali San Francisco, Chicago, Baltimora e Barcellona. Ad oggi tutto questo sembra arrancare. La visione portante del progetto dovrebbe essere l’immagine dell’area portuale che diventi il «biglietto da visita» di Napoli per il turista che vi approda, e il punto in cui tutta la città e i suoi visitatori incontrano il mare. Infatti, l’area monumentale del porto di Napoli è tra le più vaste e più ricche di storia, estendendosi dalla Darsena Acton ai piedi della Reggia fino al complesso settecentesco dell’Immacolatella Vecchia. Oggi il porto è ’ delimitato a ponente dall’antico Molo San Vincenzo, posto a difesa del porto, ed a levante dalla diga foranea Emanuele Filiberto duca d’Aosta. Il Sogno diventerà realtà?
Proprio qui, in Piazzale Immacolatella Vecchia, quello che avrebbe bisogno dei maggiori interventi di riqualificazione, da circa 60 anni, all’altezza del Varco Duomo, c’è la sede della storica trattoria, che con il passare di quattro generazioni della famiglia Musella – Ugon, ha mutato varie volte il nome: “ Zì Rosa per due generazioni, poi Da Don Antonio e oggi, Il Porto dei Sapori”, anche se quasi tutti i clienti continuano a chiamarla “Don Antonio”, il papà degli attuali titolari Biagio e Giovanni Ugon.
Il locale è semplicissimo, quasi una struttura mobile con infissi in pvc e tapparelle blu. Un’unica sala con circa 15 tavoli, arredamento essenziale, ad una delle pareti spicca una riproduzione della tavola Strozzi di via Caracciolo fin de siècle.
La minuscola cucina con sei fuochi accesi dalle otto del mattino, è il regno di Giovanni, 43 anni, lui, la trattoria ce l’ha nel sangue, sua madre Maria lavorava qui mentre lui scalciava nella sua pancia.
Il cuoco va a fare la spesa all’alba, al Borgo di Sant’Antonio Abate, un rione di Napoli che sorge ai lati di via Sant’Antonio Abate, strada lunga circa un chilometro che unisce Porta Capuana a Piazza Carlo III, famosa per il suo storico mercato giornaliero. Di particolare rilevanza storico-urbanistica, è una delle poche zone della città che dal ‘400 ad oggi ha mantenuto inalterata la propria struttura. Qui Giovanni compra verdure, legumi, carne e pane, per il pesce va al mercato di Porta Nolana “ ‘ncopp ‘e ‘mmura”. Biagio, l’altro fratello si occupa della parte amministrativa. La clientela è estremamente varia, per lo più composta da portuali di ogni livello, personaggi dai volti indelebili nella memoria, gente che qui nel porto ha trascorso una vita, ma, anche, professori universitari e impiegati di banche e uffici esterni al porto, tra Piazza Municipio, Via Marina e Via De Gasperi. Intorno a mezzogiorno arrivano i marinai, i tecnici e gli operai di bordo, quelli che cominciano alle cinque di mattina e che, ovviamente, hanno già fame.
In cucina i fuochi vanno a mille: spaghetti al pomodoro fresco, alle vongole, in bianco o rosé, maccheroni al ragù, pasta al forno, verze e riso, sempre una minestra on legumi: ceci, lenticchie, fagioli.
Ancora, pasta e patate, pasta e cavoli, spaghetti al soffritto, genovese.
Nell’attesa arrivano sulle tavole fumanti crocchè di patate, di quelli veri, non tutti uguali, frittura perfetta, crosticina croccante un po’ staccata dalla farcia e dentro profumata provola filante, prosciutto cotto, sale e pepe.
In un posto così, che serve anche da asporto, ci deve essere per forza una cosa… mi infilo in cucina e le vedo: alte, croccanti, fumanti, due splendide frittatone di spaghetti un po’ “arruscati”, pronte per essere tagliate a fette e mangiate rigorosamente con le mani.
Poi la scelta del vino, della casa arriva da Telese, oppure falanghina e aglianico del beneventano. Gradevole il rosso della casa, il servizio del vino è super informale, si versa in caraffa, chiedendo “basta o ne vuoi ancora”?
Il pane è quello cafone napoletano, perfetto per la “scarpetta” dei sughetti di Giovanni. Interessante l’etimologia del termine “cafone”: è la versione italiana dell’espressione napoletana «c’a fune» (con la corda), riferita ai contadini che trasportavano in città le derrate agricole, collocate sul dorso dei muli o degli asini, che essi tiravano appunto c’a fune, o si tenevano stretti l’uno all’altro “c’a fune” per non perdersi. Verso le 13 e 30 la saletta con tovaglie di carta e classiche stoviglie da trattoria, è gremita, si ascoltano molti dialetti e qualche lingua straniera: siciliano, calabrese, inglese, francese e tedesco.
Tutti sono amici di Giovanni, l’oste gigante che ha un sorriso per tutti ed è sempre pronto ad offrire un piatto caldo a chi non può permetterselo. In un angolo un distinto signore silenzioso, mi dice Giovanni: “ chill’ è l’ingegnere, vene ccà a trentacinc’anne”, in effetti, mi accorgo che viene trattato con molta deferenza, timidamente gli chiedo una foto…
Il menù è solo a voce, i piatti arrivano in sala e non sempre si sa a chi sono destinati, qualcuno adocchia qualcosa che gli piace e il cameriere non ha problemi, molla il piatto e torna in cucina per un’altra porzione. Giovanni fa acrobazie tra i fornelli, nella minuscola cucina, con l’aiuto di Mercedes, giovane ecuadoreña ormai napoletanizzata,
i piatti di benvenuto, crocchè, bruschette e pizzelle di alghe, escono a raffica.
Molto varia la scelta dei secondi, equilibrata tra terra e mare: spettacolare il tris di carne del ragù, con la tradizionale “braciola di cotica” quella per gli stomaci “hard”,
le polpette fritte o al sugo, la carne al forno con le patate, la trippa al sugo, fegatini fritti e prosciutto e mozzarella. Sul lato mare, il fiore all’occhiello è un gigantesco e saporitissimo calamaro alla brace, polipo all’insalata, o, polipetti affogati alla luciana,calamari e gamberi fritti, una spettacolare frittura di paranzella, ovvero, di pesce di piccolo taglio, molto diffusa nella cucina napoletana, prende il nome paranza, da una tipica barca da pesca con la rete, di piccole dimensioni, usata nel napoletano. Si compone di solito di merluzzetti, triglie, alici, “ ficasuacia” (passera di mare simile alla sogliola), cepole, pesciolini lunghi, filiformi di colore rosa, gamberetti e ,se si è veramente fortunati ,i “soricilli ‘e mare ( pesce pettine). La frittura viene fatta passando il pesce nella farina, quindi friggendolo rapidamente nell’olio bollente e poi asciugandolo su carta assorbente, va mangiata caldissima (frijenno magnanno, si dice a Napoli).
I contorni vanno da freschissime insalate miste con pomodori e italianissime olive verdi, peperoni in padella, funghi trifolati, friarielli, parmigiana di melanzane, zucchini alla scapece e patate al forno.
Sorpresa per il dessert, mi aspetto le delizie siciliane della nota ditta dei Fratelli Busiello che da oltre 40 anni commerciano quotidianamente con la Sicilia, acquistando cassate, cannoli, surprise ( piccoli cannoli farciti di sola ricotta), paste di mandorla, frutta martorana e altre bontà …vedo arrivare a tavola la pastiera e la torta ricotta e pera niente di meno che by Pasquale Marigliano. Al tavolo di fronte al mio, guarda caso, siede uno dei fratelli Busiello, venuto per uno spuntino veloce, di fronte a lui un anziano marinaio dal viso che riflette il mare, mi resta impresso quel volto, devo fotografarlo. Busiello mi invita in pasticceria, assaggio un mini cannolo.
Nel pieno dell’estasi, mi accorgo che il vecchio signore con gli occhi color del mare è tornato, non resisto gli chiedo come si chiama e il permesso di fotografarlo. Mi risponde imbarazzato con un filo di voce: ” me chiamm’ “Tazzulella”, perché pure mio padre e mio nonno se chiammavan’ accussì e sto qua dentro da settant’anni, ne tengo 81.
Gli sorrido ammutolita e commossa, mentre lui con le mani un po’ tremanti, tira fuori da un vecchio portadocumenti il famoso medaglione di riconoscimento dei lavoratori portuali, dentro la sua foto di quando aveva vent’anni, l’espressione degli occhi è la stessa.
“Tazzulella” continua: “ io sto sempe ccà, tutte ‘e juorne, arrivo ‘e cinc’’e mieze”. Si lascia fotografare anche con il medaglione, ci salutiamo con un abbraccio e gli auguri di Natale. Giovanni in trattoria mi dice che non ha nessun problema ad offrire il pranzo a “Tazzulella” tutti i giorni, lui è la storia del porto di Napoli. Ancora un pezzo di rara umanità, di quelli che ti scaldano o ti gelano il cuore allo stesso tempo... Faccio ancora un giro nel piazzale per ritrovare il bellissimo e purtroppo cadente, Palazzo dell’Immacolatella, uno dei palazzi di interesse storico ed artistico di Napoli tra la calata del Piliero e quella di Porta di Massa.
Il palazzo, fatto costruire da Carlo III di Spagna al fine di ospitarne la sede della deputazione della Salute, è caratterizzato dalla statua della Vergine Maria, che svetta verso l’alto. L’architetto a cui fu affidato il progetto, Domenico Antonio Vaccaro, creò un effimero apparato barocco. La struttura, attualmente, non è destinata a nessuno scopo, tuttavia, in futuro dovrebbe essere oggetto di riqualificazione con utilizzo museale.
Un po’ infreddolita, decido per un ottimo caffè, rigorosamente in vetro, quello del Bar Italia, un altro pezzo di storia del porto di Napoli, qui da oltre cinquant’anni.
Ah dimenticavo…con la tredicesima riuscirete senz’altro a pagarvi un pranzo da Giovanni, niente di meno, 13 – 15 euro per un pranzo completo a base di carne e 18 euro a base di pesce, vino della casa e dessert inclusi. Esagerato, ma si, è Natale, Auguri!
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