di Antonino Siniscalchi
Mio nonno Giovanni, contadino, classe 1898, combattente della Prima guerra mondiale, dedicava a questa coltivazione una attenzione maniacale. In quell’ampio podere di terrazzamenti, tra ulivi e viti, a Montecorbo, nel borgo dell’Arolella, a Massa Lubrense, con i primi raggi di sole di primavera allestiva lunghi filari di piantine dei semi appena sbocciati che tramandava, di anno in anno, essiccandoli al sole.
Questo era il segreto per conservare qualità e sapore. Un rito, una consuetudine, accompagnata da una frase ricorrente per giustificare l’originalità del terreno da coltivare, focalizzando l’attenzione dal secondo filare: «Guaglio’, ricuordt ’O primmo surco non è mai surco» (Ricordati, il primo solco non è mai solco).
Non mi ha mai spiegato perché, ma in fondo, credo di averlo intuito, il primo solco non è mai dritto, ma protegge anche quelli che seguono. Qui, in queste terre della penisola sorrentina, si coltiva una specialissima qualità di pomodoro che assume appunto la denominazione di “sorrentino” o “cuore di bue”, ma non ha affinità organolettiche con quelli coltivati in Liguria e in Sicilia. Il pomodoro di Sorrento, infatti, assume una particolare forma “costoluta” con insenature ampie e poco profonde. Rappresenta una delle produzioni tipiche della Regione Campania, ma si caratterizza per la sua delicatezza e le sue qualità di consistenza e sapore. È il pomodoro che nobilita anche, con l’aggiunta di treccia, mozzarella di mucca o di bufala, la classica insalata «caprese». Il rito della coltivazione di mio nonno l’ho ereditato con un pizzico di civetteria, restituendo le mie braccia alla terra, ma con quanta fatica, per raccogliere quei pomodori che allietano la tavola, con l’immancabile basilico, l’origano, un pizzico di sale e l’olio dop che li condiscono. Si parte ad aprile (anche a fine marzo, dipende dalle condizioni meteo di primavera), con la scelta del coltivatore di fiducia che dovrà fornirci le piantine curate in serre o quelle innestate con due piante diverse della stessa specie.
Come si coltiva il pomodoro di Sorrento
Si parte da una profonda opera di bonifica, zappando il terreno accompagnato da una concimazione leggere e lasciarlo riposare, sperando che non piove in attesa della messa a dimora delle piante. Comincia a questo punto la lunga attesa del raccolto, almeno due mesi, tra una leggera spruzzata di verderame e l’altra, per prevenire la formazione di insetti nocivi alla pianta. Quest’anno la prima maturazione (per chi non ha coltivato in serra) è arrivata a fine giugno, la raccolta è durata un mese. A metà agosto molte piante, che raggiungono un’altezza di oltre un metro e mezzo, hanno già esaurito la loro produzione. Due raccomandazioni: poca acqua, prestando attenzione ad irrorare le radici nel terreno e, soprattutto, “governare” le piante di pomodoro alle prime luci dell’alba. Ogni pianta produce dai tre ai 5 chilogrammi, sperando di non suscitare le attenzioni di topi e uccelli. Il clima del territorio della penisola sorrentina si presta, particolarmente, a conferire al pomodoro quelle caratteristiche sceniche che conferiscono una conformazione particolare. Quella forma rotondeggiante, il colore che sfuma tra il rosso chiaro e il verde in attesa della piena maturazione, che racchiude la polpa corposa, con pochi semi e scarsa quantità d’acqua, conferisce un sapore delicato.
Il pomodoro sorrentino, ricco di vitamine, contiene licopene nella giusta quantità, l’antiossidante naturale che trattiene la diffusione dei radicali liberi. Importato ai primi del 900 dall’America, nell’ambito degli scambi commerciali di agrumi e noci, ha una quotazione che oscilla tra i tre euro nel periodo di alta produzione ai sei euro come primizia di primavera o raccolto autunnale. La coltivazione nel tempo si è diffusa anche nell’area vesuviana. Ma non raggiunge le stesse caratteristiche organolettiche della penisola sorrentina.
Tra le ricette che nobilitano la cucina, oltre all’insalata caprese, spicca un piatto tipico di stabiese: i bucatini alla Mike, resi celebri dal compianto Michele Vanacore, in tavola dagli anni ’60, a Castellammare, dove gestisce, all’interno del Circolo Nautico, il bar con annesso un piccolo campo da tennis. L’idea del piatto viene per un’esigenza pratica: sfamare la propria numerosa famiglia durante la pausa pranzo del Circolo; Michele sapeva cucinare: aveva fatto il cuoco, durante il periodo militare, la cucina era da sempre la sua passione. Nel cucinino nel retro del bar si diletta a preparare piatti della tradizione povera stabiese. Un giorno, avendo a disposizione solo pomodori sorrentini e della pasta, diede vita al piatto che l’ha reso celebre nel tempo.
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