Il 2024 sarà l’anno del trentennale del Montevetrano. Non una delle tante storie di successo del vino campano, ma la prima dell’era Parker, quando il guru americano della critica mondiale assegnò all’annata 1993 il massimo punteggio a questo rosso nato alle porte di Salerno in una vecchia proprietà di campagna della famiglia Imparato. Naque allora un ciclo di tre decenni che ha avuto la consacrazione quest’anno da parte di Wine Spectator al Taurasi Riserva 2016, indicato come quinto vino al mondo.
Il Montevetrano è un inno alla libertà di pensare, quello di una donna libera e determinata, capace di andare oltre gli schemi con largo anticipo rispetto al presente. La capacità di fare del proibito una occasione per attraversare una vita di viaggi entusiasmanti e di relazioni ad alto livello come pochi nel mondo del vino campano possono vantare. In questa casa di campagna la famiglia di Silvia Imparato villeggiava e da bambini si viveva aria di libertà lontano dalle mura degli appartamenti cittadini. Libertà di fare tutto, correre e rotolarsi sull’erba, tranne che di entrare in quella cantina. La cantinadella casa con la porta sempre chiusa. Da adulta Silvia l’ha aperta per vinificare il suo vino insieme ad alcuni amici della Capitale dove si era rifugiata per fare il lavoro di fotografa. Daniele Cernilli e Fabio Rizzari per fare giusto un paio di nomi. Poi l’incontro con Riccardo Cotarella, l’inzio di un gioco fatto con serietà e determinazione puntando su Cabernet Sauvignon, Merlot e un po’ di Aglianico. Prima vendemmia 1991, per amici, poi la 1992 etichettata ma solo in poche bottiglie, infine il botto con la 1993, in un mondo assetato di novità che voleva liberarsi dall’angoscia provocata dalla crisi del metanolo che aveva colpito i consumi di vino in Italia.
Nel corso di questi tre decenni il Montevetrano è rimasto fedele a se stesso, un classico intramontabile vivendo ad alto livello delle trasformazioni incredibili e impensabili. Quasi impermeabile ai mantra del momento, dalla liturgia delle barrique a quella del cemento, da quella dei vitigni internazionali a quella dei vitigni autoctoni, dai lieviti selezionati alle fermentazioni spontanee e così via tra le baruffe chiozzote di un mondo sempre più avvitato su se stesso, capace di riflettere sul vino tutti i difetti tipici di noi italiani, facendo cioé di ogni sorso una ideologia, quasi una lotta del bene contro il male. Ma, in fondo, cosa vuol dire «vino espressione di un territorio»? E perché non si può andare alla radice del problema, in stile pragmatico anglosassone, definendolo semplicemente buono e non buono?
Il Montevetrano ha fatto furore quando non si pensava che in Campania si potesse far vino di qualità, quando le aziende si contavano a memoria, non più di trenta comunque, quando la cantina si declinava solo al maschile, e fu lo squillo di tromba di una vera e propria rinascita senza precedenti in un mondo rurale in piena trasformazione anche al Sud. Il vino giusto fatto dalla donna giusta al momento giusto nel posto giusto. Questo è l’algoritmo di una vera e propria leggenda.
Le celebrazioni sono iniziate low profile, un po’ come i gruppi rock che improvvisavano le anteprime in una strada o in un garace. Quattro annate su quattro piatti preparati da una giovanissima cuoca, Annapia Daniele, da Gioia Cucina di Terra nel cuore di Salerno con quattro annate in magnum officiate dal sommelier Isidoro Menduto.
Ed è stata l’occasione per confermare, dopo ormai mezzo secolo di bevute a tutte le latitudini, la qualità assoluta di questo rosso, il suo essere un vino mediterraneo, libero, aperto, vigoroso. Dalla Montevetrano 2012 incredibilmente fresca, salina, complessa al naso e autorevole al palato, alla Montevetrano 2011 figlia di una mezza estate calda e afosa partita dopo Ferragosto che ha rilasciato concentrazioni di frutta e un cenno di sentori terziari. Dal Montevetrano 2008, speso subito dopo la 2012 su una magistrale genovese, che fotografa il momento esatto in cui questo rosso abbandona i luoghi comuni del fruttato e delle note balsamiche avviando il suo cammino verso l’immortalità, ovvero di una complessità olfattiva e palatale ininterrotta e mai monocorde. Per finire alla Montevetrano 2009, annata piovosa e interpretata benissimo, tenuta in piedi dall’acidità e da bere anche subito, pronta e giovanile.
Una jam session che ci ha ricordato altre verticali, con la speranza di poterne fare ancora tante. E così sarà.
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