Dal tartufo alla tintilia
Dalla lezione di una dura e bruciante sconfitta spesso può nascere un grande successo. Sarà questo il caso del piccolo Molise che, con i suoi 4000 chilometri quadrati, è la regione italiana più piccola? La pattuglia di produttori ha vissuto lo psicodramma commerciale del divieto imposto dagli abruzzesi di aggiungere in etichetta Montepulciano alla doc Molise, ma la riscossa arriva da un piccolo, ancora sconosciuto al grande pubblico, vitigno autoctono: la tintilia, sinora coltivata in una percentuale che varia tra il 2 per cento a Campobasso e il 5 a Isernia degli 8300 ettari del vigneto molisano. Questa uva a bacca rossa risolve infatti un problema fondamentale nel mercato globale in cui è necessario distinguersi quando non si hanno le quantità necessarie per competere sui numeri e sui costi di produzione: restituisce infatti una forte identità alla regione che più di ogni altra ha sofferto l’anonimato nel bicchiere negli ultimi decenni. Le aziende l’hanno scoperta e ci stanno investendo e alla fine forse sarà proprio un bene che si riescano a caratterizzare con un prodotto di territorio su cui nessuno può vantare alcuna primogenitura.
<La sua caratteristica principale – spiega l’enologo Goffredo Agostini – è nella sua notevole carica di sostanze coloranti e tanniche che trasmette integralmente al vino, che quando è ancora giovane assume subito riflessi nero-violacei. Appartiene al gruppo ampelografiche delle tintorie, cioé quelle varietà con succo e buccia ricchi di antociani>. Non siamo in presenza di una tradizione inventata in ossequio alla moda del vitigno autoctono perché in passato la tintilia è stata il pilastro della viticoltura molisana, veniva quasi sempre vinificata in purezza per ottenere vini robusti, strutturati, adatti agli inverni siberiani di questa regione sdraiata sul mare con la testa in montagna. Si utilizzava anche per vini di pronta beva, come era in uso tra i contadini di quasi tutta l’Italia. La sua origine resta incerta, c’è chi la fa derivare da qualche ceppo della varietà sarda bovale grande, altri pensano che sia un clone del piedirosso campano o del colorino toscano, pare sicuro invece che in Molise arrivò nella seconda metà del ‘700 grazie ai Borbone che avevano sempre un occhio attento alla viticoltura, sino a creare vicino la Reggia di Caserta la famosa Vigna del Ventaglio con tutte le varietà di uva già conosciute e selezionate dagli agronomi dell’epoca.
La sua resistenza alle malattie, alle muffe, al freddo, fu il motivo di un successo pressoché inarrestabile, tanto che alla fine dell’800 la tintilia era la varietà più coltivata nella regione, poi il declino progressivo iniziato nel Dopoguerra quando il Mezzogiorno provato dalla fillossera arrivata in ritardo e dallo spaventoso conflitto mondiale venne colonizzato da vitigni più produttivi. Fu allora che il Molise cominciò a perdere progressiva la sua identità in vigna, una circostanza favorita anche dalla sua collocazione geografica che lo ha portato spesso a subire le influenze delle regioni confinanti: così la falanghina e l’aglianico ci parlano della Campania, il montepulciano e il trebbiano dell’Abruzzo, lo chardonnay, il merlot e il cabernet sauvignon dell’ultima ondata di vitigni internazionali arrivati dalla Puglia che influenza in modo deciso anche tutta la cucina del Basso Molise, dove cioé si concentra la maggior parte della produzione vitivinicola. Ecco perché troviamo anche il bombino bianco e la malvasia. Una sorta di transumanza delle uve, insomma, il contraltare agricolo di un territorio che per molti secoli ha trovato nell’allevamento la principale fonte di reddito e di sopravvivenza.
Pressato tra Nord e Sud, fra Tirreno e Adriatico, il territorio molisano sta ritrovando da poco la sua identità come rivelano la sua prima partecipazione organizzata al Vinitaly del 2004, la nascita di nuove cantine che hanno irrobustito rapidamente il panorama vitivinicolo con ottimi risultati, la costituzione della sezione regionale del Movimento del Turismo del Vino molto attiva presieduta da Erminia Gatti alla quale aderiscono quasi tutte le cantine. Il lavoro è stato impostato anzitutto a livello normativo: alla storica doc Biferno a Campobasso è stata affiancata nel 1998 quella Molise che comprende 70 comuni delle due province. Per la verità c’è anche una terza doc a Isernia: Pentro. Ma è sulla carta perché non c’è nessuna azienda che la utilizza, resta così solo traccia della memoria storica della regione perché la tribù dei Pentri era il ceppo principale del popolo Sannita che aveva Sepino come loro capitale. Ancora oggi l’area archeologica, a ridosso della provincia di Benevento, è una delle realtà più importanti e meno conosciute di questa fascia appenninica, arricchita dai successivi insediamenti romani e longobardi. Completano il quadro le igt Osco o Terre degli Osci e Rotae che offrono, insieme alle doc, una vasta possibilità di scelta tra i vitigni, le tipologie, comprese gli spumanti, e i diversi blend. I produttori hanno insomma una cornice in cui poter fare quello che preferiscono, ma l’attenzione si sta spostando dopo le indecisioni degli anni ’90 verso la tintilia e la falanghina.
Infatti, se è proprio la tintilia l’uva a bacca rossa da cui stanno arrivando le maggiori novità e su cui si sta investendo con decisione, non c’è dubbio che l’influenza più forte sui bianchi viene dalla Campania con la falanghina di cui il Molise sta diventando un grande produttore con risultati strabilianti oltre che con un ottimo rapporto tra la qualità e il prezzo. <Per la verità io produco anche fiano e greco dai quali sto ricavando gran belle soddisfazioni – dice Alessio Di Majo Norante – Si tratta di ottimi vitigni a bacca bianca, tipici, di gran lunga superiori al trebbiano e in grado di competere bene anche con le uve internazionali>. E’ questa la scelta del più conosciuto produttore molisano, oltre 700.000 bottiglie da 85 ettari di proprietà, il primo a lavorare sulla tintilia, impegnato nell’azienda di quasi cento ettari fondata a Campomarino dal papà Luigi (a cui ha dedicato un rosso molto apprezzato dalla critica) nel 1968, di cui è consulente Riccardo Cotarella. Negli ultimi venti anni l’intera regione si è caratterizzata con questa cantina, un po’ come l’Umbria con Lungarotti, la Puglia con De Castris, la Basilicata con Paternoster, la Campania con Mastroberardino e la Calabria con Librandi. Così, mentre il trebbiano sembra andare fuori gioco, le scelte dei produttori di questo versante adriatico oscillano tra lo chardonnay e i vitigni bianchi autoctoni campani che stanno conoscendo una fase di grande espansione oltre che nel Molise anche in Basilicata e Puglia, sicuramente più dell’aglianico che sulla sua strada incontra il montepulciano e le altre uva a bacca rossa pugliesi come il primitivo e il negroamaro. Di questa azienda vogliamo ricordare lo strepitoso Apiane, uno dei moscati italiani più buoni.
Campomarino, dunque, un balcone affacciato sulla costa tappezzata dai vigneti a tendone e sul mare, costruito su una collina strategica sopra i resti dell’antica Cliterna romana. Siamo a un pugno di chilometri a sud di Termoli, le sue spiagge sono tra le più pulite e belle dell’Adricatico secondo Lega Ambiente. Ad un tiro di schioppo iniziano le colline vitate che caratterizzano il paesaggio della fascia pedemontana e lungo la valle del Biferno, il principale fiume della regione che regala il suo nome alla doc più antica. Proprio in questo fazzoletto di costa è concentrata l’80 per cento della produzione vitivinicola, in passato destinata alla sfuso per le grandi aziende del Nord, adesso con un presenza marcata da etichette sempre più interessanti. Insomma, chi è a caccia di affari e di novità deve venire qui, godere della cucina marinara e di quella terragna di influenza pugliese, comprare i burrini, le giuncate, la ventricina di Montenero di Bisaccia, le scamorze, e farsi accompagnare nell’Alto Molise a caccia del famoso tartufo bianco tra Capracotta, San Pietro Avellania e Pietrabbondante: non c’è famiglia molisana che non abbia la licenza per cercarlo. Il tartufo, proprio come il vino, come tutti i prodotti del Mezzogiorno, è sempre stato venduto ai grossisti che controllano il business e che fanno il mercato al Nord. Ma anche qui ormai c’è l’inversione di tendenza favorita da una generale presa di consapevolezza delle potenzialità del territorio, come avviene tra i 2000 ettari di vigneto di Campomarino dove adesso operano anche altre cantine. Come quella di Borgo di Colloredo, fondata nel 1960 da Silvio Di Giulio, oggi guidata dai figli Enrico e Pasquale che si occupano rispettivamente della vinificazione e della produzione di uva che nel 1994 hanno iniziato ad imbottigliare investendo ben 30 dei 100 ettari di proprietà in una sperimentazione di selezione clonale dei vitigni più diffusi nel Molise. Tra i suoi vini segnaliamo il Terre degli Osci rosso da aglianico in purezza.
Sempre a Campomarino lavora la Cantina Cliternia fondata all’inizio degli anni ’80 da un gruppo di imprenditori, una cooperativa che comprende 300 soci guidata dal presidente Armando Petella e dal direttore Francesco De Angelis mentre in cantina lavora l’enologo Giancarlo Codella: trebbiano, malvasia, bombino tra le uve bianche, montepulciano e aglianico tra quelle rosse. Un blend di questi ultimi due vitigni costituisce il vino di punta, il Trabucco. Fa parte invece della new wave l’azienda Di Tullio creata nel 2002 da Susanna Toschi dove l’enologo Umberto Svizzeri lavora montepulciano, cabernet sauvignon, falanghina e chadonnay. Non lontano, ci spostiamo a Portocannone, c’è Masseria Flocco dei fratelli Michele e Salvatore: 110 ettari di proprietà dove si coltivano montepulciano, merlot, cabernet sauvignon per un totale di circa 200.000 bottiglie pensate dall’enologo Paolo Peira. Molto buono il bianco Podere del Canneto con chardonnay al 60% e altre uve a bacca bianca.
Imboccando la verde Bifernina per risalire verso Campobasso, troviamo immediatamente la Cooperativa Valbiferno a Guglionesi, il paese dove c’è Ribo, uno dei fari della ristorazione molisana: una realtà molto solida, oltre 400 i soci cooperativa con 800 ettari coltivati sulle colline di Larino, Ururi, San Martino in Pensilis, Campoarino, Portocannone, Guglionesi e San Giacomo. Tra le lavorazioni c’è anche lo spumante. E nella vicina Larino c’è Angelo D’Uva, una cantina fondata nel 2001 in una azienda agricola di 15 ettati vitati creata subito dopo la guerra, nel 1945. Qui siamo verso l’interno, a 30 chilometri dal mare, Fabrizio Giacomini lavora sia su vitigni italiani che internazionali. Vale la pena di sottolineare che questa azienda, unico caso tra i produttori di vino molisani, è anche uno splendido agriturismo, con 16 posti letto oltre che ristorante, impegnato nella produzione di grano e pesche. Il suo vino di punta è il Ricupo, montepulciano in purezza. Ancora più su, sempre risalendo verso Campobasso, c’è Colle Sereno del sannita Giuseppe Mogavero, 80 ettari a 400 metri di altezza dove si produce un po’ di tutto anche se l’azienda nelle ultime vendemmie sta puntando decisa sulla falanghina e la tintilia vinificate in purezza con ottimi risultati. Pure in questo caso l’enologo è Umberto Svizzeri. L’ultima nata è Cantine Cipressi a San Felice del Molise, 10 ettari seguiti da Goffredo Agostini: tintilia, montepulciano, charddonay, aglianico e merlot le uve coltivate, Macchiarossa il nome del vino ottenuto da tintilia in purezza di cui l’azienda vuole diventare il primo produttore. Nata negli anni ’30 per produrre montepulciano e trebbiano, la proprietà è rimasta sempre alla famiglia e dal 2001 Claudio Cipressi con Ernesto Travaglini hanno deciso di lanciare il progetto di riqualificazione delle uve cominciando ad etichettare i vini. Ma forse per trovare il segnale più significativo di ripresa bisogna tornare sulla costa, stavolta siamo a Nord di Termoli, non lontano dalla foce del fiume Trigno che segna il confine con l’Abruzzo. Pasquale Di Lena, uno dei fondatori delle associazioni delle Città del vino e dell’olio, ex segretario del’Enoteca Italiana, protagonista indiscusso della viticoltura italiana degli ultimi anni, ha voluto confrontarsi con la realtà agricola più grande scendendo personalmente in campo per dirigerla, la Fattoria Di Vaira a Petacciato: <Essendo l’azienda molisana – ha dichiarato Di Lena – più grande, può sicuramente diventare un modello per tutti. E’ molto importante che sui 530 ettari di proprietà si sperimenti qualcosa di utile al territorio. Io ho portato avanti questo progetto di distretto rurale che ho chiamato “terra di solidarietà” e ho trovato una notevole e qualificata attenzione. Ecco, dobbiamo riuscire a far partire questa progettualità, ch’è poi un discorso che include anche altre decine di progetti di prossima realizzazione>. La Fattoria Di Vaira, impegnata anche nell’olivicoltura con l’olio extravergine di oliva Sotto Colle, produce falanghina, aglianico, montepulciano, ed è proprietà una Fondazione presieduta da Monsignor Valentinetti, Vescovo della Diocesi di Termoli-Larino.
A metà strada tra Roma e Napoli, con le sue aree archeologiche, il mare, le chiese, i borghi, l’ambiente incontaminato, la cucina, il Molise riesce ad imporsi con decisione anche nel bicchiere e gioca le sue carte per emergere e dare risposte agli appassionati di enoturismo, la grande risorsa italiana che mai nessuno potrà imitare.
Il vigneto Molise è esteso 8300 ettari da cui si producono circa 350.000 ettolitri. Due le doc, Biferno e Molise, che coprono circa un decimo del totale. La doc Biferno, 13.900 ettolitri, interessa 43 comuni della provincia di Campobasso mentre la doc Molise copre il territorio di 70 comuni di Campobasso e Isernia. La terza doc, Pentro, attualmente non è utilizzata. Due le igt: Osco o Terre degli Osci e Rotae.
Da Cucina e Vini, luglio 2005
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