Ieri e oggi si è tenuto a Bologna, organizzato dall’Alma App.etite, un convegno su enogastronomia e crossmedialità. A me era stato assegnato il tema del mito dello chef. Contro tutte le regole degli algoritmi e degli studi di attenzione su internet, pubblico per intero la mia traccia scritta che riflette sostanzialmente quello che ho detto.
Ho pensato a lungo da quale versante scalare il tema che mi è stato assegnato. Poi, come spesso accade, la soluzione l’ho trovata per puro caso attraversando un gruppo di giovanissime ragazze alle prese con la scoperta della vita davanti a un bar di notte.
Nel mio orecchio esercitato ad ascoltare arriva questo desiderata di una di loro “Io mi voglio proprio fidanzare con un cuoco”. Del resto se prima ricevevo segnalazioni per ragazzi che volevano fare il giornalista adesso mi capita sempre di più di sentire giovani la cui aspirazione è fare il cuoco.
Allora ho capito che se un lavoro, non una persona, entra così intimamente nei progetti personali siamo ben oltre quello che si definisce mito, cioè quando qualcuno o qualcosa è capace di polarizzare le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, elevandosi a simbolo privilegiato e trascendente.
Siamo nella dimensione del sogno.
La storia ha le sue radici nel mito, di una narrazione perfetta che, incurante di fonti verificabili, ridisegna il passato per costruire il futuro, ma soprattutto per giustificare il presente.
Nell’era della società di massa i miti circolano molto più facilmente e, al tempo stesso, si moltiplicano sino a dare a ciascuno di noi la possibilità di sognare di diventare noi stesso un mito, eventualità impensabili quando l’oggetto della storia erano dei o semi dei, talvolta uomini.
Oggi miti si moltiplicano e si diffondono molto più rapidamente.
Non dobbiamo aspettare certamente Masterchef per scoprire la notorietà dei cuochi. Sin da quando in Francia la borghesia ha imposto la propria cucina con la vittoria del proprio modello sociale, e dunque la gerarchia e il percorso dei piatti in un banchetto qualsiasi, privato o pubblico, non vi è dubbio che, il cuoco, l’artefice di questo piacere nuovo, distinto dal semplice alimentarsi, avrebbe ricoperto un ruolo sociale specifico.
La storia della gastronomia perde il carattere di espressione del territorio per puntare l’attenzione sulla tecnica e sul tempo, si passa dalle ricette popolari a quelle elaborate dallo specialista, dal cuoco. Dalle corti alle case dei ricchi, a Parigi, Napoli e in tutta Europa si affermano figure di cuochi e di autori di ricettari che sostituiscono i quaderni con le alchimie segrete della nonna per imporre la specificità della professionale e, come si dice oggi, della Scienza Gastronomica.
I più bravi sono corteggiati e riveriti dai ricchi prima nelle case poi nei ristoranti, la cui funzione è ben distinta da quella della trattoria e della osteria, perché diventano anche il luogo della esibizione, della spettacolarizzazione del cibo oltre che del nutrimento.
Alla portata di tutti.
Come ben sappiamo, nel 1900 esce la prima Guida Michelin, una pubblicazione destinata ai primi automobilisti gastronomi allo scopo di illustrare le caratteristiche dei ristoranti di qualità presenti sul territorio.
Ci sono dunque i primi presupposti per la nascita dei mito dello chef.
Ma, si badi bene, è ancora centrato sulle figure singole, sia pure legate ad una professione tutto sommato non antica.
Un deciso colpo di accelerazione viene dato con il boom degli anni ’60, quando davvero tutta l’Italia si libera dalla fame e si affermano nuovi protagonisti che disegnano anche da noi il ristorante come esperienza cerebrale e non solo di gola o di servizio.
Stefano Bonilli ha molto scritto e ricordato questo periodo eroico della nascita della gastronomia italiana, forse sono ancora oggi le pagine più belle che possiamo leggere sul Papero Giallo e su Gazzetta Gastronomica.
Ma questa necessità di scavare e di accendere i fari su un passato prossimo rivela con chiarezza che all’epoca esistevano figure mitologiche solo per gli appassionati ma si era ben lontani dalla consapevolezza di massa del fenomeno.
All’epoca le ragazzine sognavano i Beatles, non i cuochi. La stessa notorità successiva di Marchesi era, appunto, notorietà di un grande professionista che aveva sprovincializzato l’Italia, ma non un mito, ossia non era diventato una figura trascendente capace di determinare per il solo fatto di essere narrata sui media anche scelte professionali in quella direzione. Per dirla in breve, tutti gli italiani sapevano chi era Marchesi ma fare il suo lavoro non era l’aspirazione dei giovani.
Come ben sanno i vecchi presidi degli Alberghiero, negli anni ’70, ma anche per tutto il decennio successivo, la maggior parte dei ragazzi studiava con l’obiettivo di lavorare in sala ed evitare a tutti i costi la cucina, giudicato un lavoro faticoso, improbo e privo di ogni visibilità.
Il secondo colpo di acceleratore in direzione del mito viene proprio dalle guide gastronomiche.
Sono i “fantastici” anni ’90 che preferisco virgolettare per cautela culturale, inizia a nascere anche un giornalismo specializzato di settore e si definisce proprio in quel periodo la prima gerarchia degli chef che è rimasta sostanzialmente inalterata, e direi anche condivisa, cifra più cifra meno, da tutti gli appassionati.
Nonostante la ricchezza e la profondità del mutamento avvenuto in quegli anni, l’alta cucina viene ancora vista dalla massa come altro da se, come un circolo dorato nel quale non è poi così necessario entrare a far parte.
L’apprendistato avviene a bottega, inizia però il rovesciamento dei desiderata tra sala e cucina e, con esso, l’incredibile declino di cui oggi scontiamo le cambiali della pessima qualità del servizio nella maggior parte dei locali italiani.
E’ il brodo di cottura per il salto successivo, ma in questa fase il mito non ha ancora sviluppato la sua trascendenza, vive in carne e ossa in quella trentina, comunque non più di cinquanta, cuochi e locali che dominano la scena delle guide e disegnano la geografica gourmet italiana con una sostanziale differenza. Non è più ferma sopra il Po, ma copre tutto il Paese dalla Val d’Aosta alla Sicilia. Uno dei pochi fenomeni unitari, come per il vino e la televisione, che possiamo registrare dal secondo Dopoguerra ad oggi.
Da dove nasce, allora, il mito dello chef attuale? Secondo me da un incredibile e continuo gioco di rimbalzo tra la Rete, segnatamente i social network, e la televisione.
La Rete critica la guide, invoca la democrazia del giudizio, un grillismo ante litteram ma con una differenza: nella viticultura ha la forza di ridisegnare una geografia creando nuovi personaggi, mentre nella gastronomia è costretta a giocare di rimessa senza avere, ancora, la forza di rimettere in discussione una gerarchia di eccellenza consolidata, salvo sbucciature, negli ultimi 25 anni circa.
I social diventano un amplificatore formidabile dei protagonisti della cucina italiana con una novità sostanziale: diventano i narratori di se stessi iscrivendosi a Facebook, usando Twitter postando piatti, intervenendo anche nei blog specializzati.
Così, quando all’orizzonte appare Masterchef, tutto è pronto per la creazione del mito di massa, sedimentato dal crescente successo dei programmi di cucina che sono quasi gli unici, in una Italia impoverita di idee, a fare audience. Ma anche, dobbiamo dirlo, perché sostenuti dal settore agroalimentare che è l’unico che segna punti positivi in questi anni di crisi.
Lo chef diventa un dio, per parafrasare un libro pubblicato da Feltrinelli nel 2010 che avrebbe dovuto demolire Cracco e che invece ne ha ampliato la dimensione mitologica.
Non devo certo perdere tempo a illustrare la potenza della televisione come elaborazione di miti. Io stesso, nel mio piccolo, l’ho potuta misurare dopo una fugace apparizione a Linea Verde qualche anno fa. Il giorno dopo il mio benzinaio che conoscevo da dieci anni per la prima volta mi pulì il vetro: dottò, ieri vi ho visto in tv !
Eppure ero sempre lo stesso, ma per il semplice fatto di essere stato toccato dalla moderna spada di Ulisse che da visibilità alle ombre avevo il diritto a qualcosa di più.
La differenza è che con Masterchef è un lavoro, non la persona a diventare mito, il mito dello chef appunto.
Oggi, per chi frequenta i social, è molto facile distinguere i cuochi che sono nell’Olimpo dagli altri: non intervengono mai e spesso il loro profillo è affidato a degli specialisti. E ricordo che una delle cose di cui si lamentava Bonilli nelle mitiche discussioni sul Papero è che dalla platea di chef che leggeva avida pochissimi, due, massimo tre chef, si esponevano dicendo la loro.
Oggi dunque viviamo l’epoca del mito dello chef, lo si vive all’italiana, con una modernità che arriva dalla televisione che spinge tutti i giovani verso questa professione. Una modernità che non viene dalla frequentazione dei ristoranti dunque, ma orecchiata e vissuta attraverso il piccolo schermo.
Non so se sia una cosa positiva, certo non è negativa. A patto che non si dimentichi una cosa fondamentale: chi il cibo di qualità lo produce, i contadini e gli artigiani del gusto.
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