Il mio viaggio onirico tra i dolci conventuali del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria a Palermo

Pubblicato in: La stanza di Carmen

di Carmen Autuori

Tra le mie passioni più spiccate c’è quella per i dolci conventuali: ritengo che rappresentino la vera origine dell’arte pasticciera italiana, quella più pura, ovvero che non ha subito – tranne in rari casi – l’influenza straniera. Certo, le contaminazioni dovute alle tante dominazioni e invasioni, in special modo saracene, hanno attraversato anche le spesse mura dei monasteri di clausura, ma affermare che la maggior parte dei dolci meridionali siano di derivazione araba è una delle più diffuse e superficiali affermazioni, in altri termini una vera e propria fake news.

Così, varcare la soglia del magnifico chiostro del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria in una torrida giornata palermitana con la maestosa fontana che tentava di dare un’impressione di refrigerio, sbirciare tra le antiche vetrate della Spezieria o Dolceria, ed incontrare Maria Olivieri, gentile e schiva signora palermitana, una laurea in filosofia e grande appassionata di storia, ma soprattutto anima della “rinascita” del monastero, nonché autrice de I Segreti del Chiostro – Storie e ricette dei monasteri di Palermo, è stato come intraprendere un viaggio onirico che oltre a trasportarmi in un tempo altro, mi ha restituito la consapevolezza che il più delle volte nulla è come appare, soprattutto quando è celato dai luoghi comuni. Ma andiamo per gradi, partendo proprio da Maria Olivieri.

Il Monastero di Santa Caterina, costruito nel 1311 e tra i più importanti della città, è stato aperto al pubblico solo nel 2017. L’ apertura ha destato immediatamente grande curiosità tra i palermitani, da sempre affascinati dalle storie claustrali e dalle bellezze artistiche racchiuse in quei luoghi inaccessibili. Maria, con alle spalle una grande esperienza finalizzata alla valorizzazione dei siti artistici della città portata avanti con la cooperativa Pulcherrima Res, fu incaricata da padre Giuseppe Bucaro, rettore del Santa Caterina di occuparsi degli importanti flussi turistici interessati alle visite del monastero. Lo stesso anno usciva la prima edizione de I Segreti del Chiostro, nato con l’intento di fare chiarezza sulla storia sia sulle tradizioni della dolceria del monastero sia sulla grandissima varietà di dolci conventuali della città di Palermo. Ciò ha portato alla scoperta di una realtà storica ben più complessa, ad esempio erano ventotto i monasteri palermitani dediti alla produzione di “piatta” ossia dolcetti, canditi, torte, ma anche sfincioni, pasta fresca, olive ripiene che appartengono al mondo del salato. Un vero e proprio lavoro scientifico, supportato da interminabili e difficoltose ricerche negli archivi cittadini (e di altre città siciliane), arricchito anche da testimonianze orali di qualche monaca ancora in vita o dei parenti delle stesse, queste ultime presenti soprattutto nella seconda edizione che ha visto la luce nel 2019.

<<L’opulenza della pasticceria palermitana è un fatto recente, diffusosi a partire dai primi anni dell’Ottocento -spiega Maria Olivieri -, fino ad allora nei monasteri si producevano soprattutto biscotti, Teste di turco alla maniera di Scicli, ossia simili ad un grosso bignè, cannoli in occasione del Carnevale, le torte erano solo quella alla frutta. Inoltre, bisogna considerare che precedentemente non esisteva una linea di demarcazione netta tra dolce e salato. Penso ad esempio al Pasticcio di Sostanza, in uso già nel XVII secolo, un involucro di pasta frolla che racchiudeva le interiora e, spesso, anche i maccheroni, che poi si è trasformato nel Timballo del Gattopardo, reso celebre da Tomasi di Lampedusa. In realtà le suore non ci hanno tramandato vere e proprie ricette, ma solo annotazioni a margine delle liste delle spese da rendicontare alla badessa. Io ho avuto la fortuna di incontrarne qualcuna che mi ha ‘regalato’ qualche segreto, ma solo perché molto anziana. Altre ricette sono il frutto di fonti orali apprese dai parenti delle monache o da qualche studentessa che era stata ospite come era uso per le ragazze di buona famiglia>>.

I monasteri palermitani si dividevano in due categorie: quelli di alto lignaggio riservato alle grandi aristocratiche e quelli di basso lignaggio riservato alle fanciulle provenienti dal ceto mercatile. I primi erano specializzati nei dolci, mentre i secondi si distinguevano per le preparazioni salate, dal pane alla pasta fresca.

Il Santa Caterina apparteneva alla prima categoria, basti pensare che ha ospitato tra le sue mura il fior fiore della nobiltà siciliana e, oltre ad essere specializzato nella produzione dei dolci, sin dal 1600 era dedito anche alla vendita che però doveva coprire solo le spese, compreso il lavoro delle monache in cucina. In altre parole, un vero e proprio microcosmo dove la badessa aveva il potere di un capo di stato.

E qui è necessario sfatare il primo luogo comune alimentato soprattutto dal Manzoni e dal Verga, ovvero che i monasteri fossero una sorta di penitenziario dove fanciulle monacate per forza trascorrevano una vita fatta di penitenza sottoposte a una ferrea disciplina. In realtà se guardassimo con il cannocchiale della storia la condizione femminile dell’epoca, ci accorgeremmo che la vita monastica per molte donne era il minore dei mali. Protette dalle mura di quei luoghi, molte di loro trovavano la propria indipendenza, anche economica,  perché le attività erano tante e ad ogni religiosa veniva affidato un compito: infermiera nella spezieria, in portineria, in cucina come economa, cuciniera o dolciera.

<<Partendo da questi presupposti, abbiamo pensato di riprendere l’arte della pasticceria all’interno del chiostro di Santa Caterina – precisa Maria -. L’occasione fu la presentazione della seconda edizione del mio libro nel 2019. Ricordo che offrimmo un rinfresco a base di antichi dolci conventuali.  L’iniziativa ebbe un tale successo che la domenica successiva molti palermitani volevano acquistarli, trasportati dall’onda dei ricordi. Così decidemmo, insieme a qualche socio della cooperativa e dei volontari del servizio civile, di dar vita ad una piccola produzione. Eravamo in cinque, oggi qui lavorano circa settanta persone, di cui solo dodici in cucina, la maggior parte donne, molte delle quali hanno dato una svolta alla propria vita proprio grazie alla dolceria. I proventi delle vendite sono devoluti a progetti di riqualificazione di questo tesoro che è uno dei fiori all’occhiello per la nostra città>>.

Un bellissimo esempio che, partendo dalla riscoperta della storia, diventa una impresa dagli importanti risvolti sociali.

I dolci de I segreti del Chiostro

Tra i più opulenti e scenografici va citato il Trionfo di Gola, una vera e propria opera d’arte a base di marzapane, pan di Spagna, pistacchio e canditi.

<< Questo dolce, etichettato da Dacia Maraini come ‘un po’ stucchevole’, in realtà rappresenta uno dei capolavori della nostra pasticceria – spiega la Olivieri -. È una preparazione monumentale, a forma di piramide che si sviluppa in altezza. Il segreto per renderlo più leggero, rivelatomi da Suor Gesua l’ultima priora di questo monastero, quasi in punto di morte, è quello di sbriciolare grossolanamente il pan di Spagna e di usare la crema biancomangiare come collante di tutti gli ingredienti >>.

Non mancano le Minni di Virgini (da non confondere con le Minne di Sant’Agata), dolci molto antichi che derivano da ancestrali riti propiziatori legati alla fertilità – o meglio alla lattazione -, che pare fossero dedicati alla Virgo lactans. Si tratta di cupolette di pasta frolla farcite con crema di latte o ricotta, cuccuzzata (zucca candita), scaglie di cioccolato, ricoperte da glassa con al centro della cupola una ciliegia candita.

Nella dolceria è possibile trovare anche le Fedde del Cancelliere, dolci a forma di conchiglie di marzapane farcite da crema e confettura di albicocca che erano in uso nel monastero di Santa Maria de latinis detto del Cancelliere. Ma i palermitani hanno sempre giocato sull’equivoco linguistico. Scrive Maria Olivieri: “Con Fedde del Cancelliere si potevano intendere sia i dolci preparati nel monastero, che le natiche del primo ministro. Provocava una certa ilarità l’idea che a manipolare quei dolcetti impudichi fossero le mani sante delle monache”.

È credenza comune che il cous cous dolce sia appannaggio esclusivo del Monastero di Santo Spirito di Agrigento. Invece risulta che anche nelle cucine della maggior parte dei monasteri palermitani da tempi immemorabili se ne producesse in grande quantità sia nella versione dolce che salata.

Passiamo alla cassata che, ricordiamo, nasce come cassata infornata, cioè pasta frolla ripiena di ricotta, zucchero e canditi. La versione più diffusa attualmente è la cassata fridda, quella decorata da glassa e frutta candita per intenderci.

Specialiste delle cassate al forno erano le suore carmelitane del monastero di Valverde che secondo la tradizione avevano perfezionato una ricetta antichissima a base di tuma. Quindi gli arabi non c’entrano proprio nulla con questo dolce che in realtà deriva da un dolce di epoca romana a base di formaggio addolcito con il miele. Nel monastero di San Martino delle Scale è stato ritrovato uno stampo risalente al 1600 usato per realizzare le antesignane delle cassate al forno. Anche nelle cucine di Santa Caterina si producevano dei rotoli di pasta frolla, rigorosamente senza uova, ripieni di ricotta, zucchero e cannella.

Ci sono poi le Maria Stuarda, crostatine dalla forma allungata realizzate con pasta frolla e farcite con cucuzzata. Non è un dolce antichissimo, potrebbe derivare dal Queen Mary’s Tart, un dolce scozzese a base di marmellata di arance che, in Sicilia, è stata sostituita con quella di zucca (cucuzzata).

Oltre a questi, magnifici cannoli, frutta di Martorana, genovesi, buccellati: tutti di squisita fattura.

<< Si è soliti raccontare molti piatti supportando la narrazione con dei miti – conclude Maria Olivieri -. Ad esempio, solo gli sfingi sono sicuramente di origine araba. Quando si parla di cucina, ma non solo, bisogna affidarsi alle fonti, siano esse scritte, orali o entrambe. La storia della cucina non è una favola>>.

Si ringrazie Laura Landino per il contributo fotografico.

 


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